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Dalla preistoria dei trattamenti alla terapia genica

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Facciamo un breve excursus per capire quale percorso ha seguito la storia dell’emofilia e dei suoi trattamenti per arrivare alla situazione attuale. Quanti anni ci sono voluti per arrivare alle sperimentazioni sui nuovi farmaci sottocute e alla terapia genica?

L’emofilia è nata con l’uomo. Già nel 400 a. C. il noto medico greco Ippocrate aveva notato l’anomala coagulazione di un soldato ferito, nel secondo secolo d.C. il Talmud parla di come Giuda il rabbino avesse esonerato dalla circoncisione il terzo figlio maschio di una coppia i cui primi due figli erano entrambi deceduti a seguito di un eccessivo sanguinamento. Nell’anno mille il medico arabo Albucasis descrive nel suo trattato, “Kitab al-Tasrif”, una malattia assolutamente identificabile con l’emofilia. La patologia era quindi nota e documentata, i pazienti morivano per eccessivo sanguinamento, ma nessun trattamento era ancora possibile.

Tra la fine del settecento e primi dell’ottocento comincia la conoscenza del processo emostatico, altri medici descrivono casi di pazienti affetti da disturbi emorragici finchè nel 1828 Friedrich Hopff, giovane studente dell’Università di Zurigo assieme al suo professore, il dr. Johann Lukas Schönlein coniano il nome di “emorrafilia” per definire tale patologia, poi modificato in emofilia, nome che deriva dal greco greco αἷμα cioè “sangue” e ϕιλία ossia “amore”. Nonostante le migliorate conoscenze mediche, le terapie continuano a mancare.

E’ dei primi anni del novecento la definizione di “emofilia: malattia dei re” poiché ne risultavano affetti diversi discendenti della regina Vittoria sparsi nelle molti corti Europee. La storia più nota di tutte è quella dello zarevic Alessio figlio dell’ultimo zar di Russia Nicola II, morto anche lui trucidato dai bolscevichi nel 1917, affetto da emofilia B, come si è poi scoperto nel 2009 dall’analisi genetica dei suoi resti. Ed è sempre di questo periodo (1900) la scoperta da parte di Karl Landsteiner dei gruppi sanguigni che ha aperto la strada alla terapia trasfusionale. Fino ad allora infatti le emorragie gravi nei pazienti emofilici non potevano venire curate, oppure il ricorso a trasfusioni di sangue non sempre portava i risultati sperati.

Fino agli anni ’60 nessun nuovo trattamento diviene disponibile per questi pazienti, la terapia trasfusionale è una terapia al bisogno che però è incapace di prevenire le sequelae tipiche della patologia emofilica come l’artropatia. La mortalità è ancora moto elevata.

La svolta avviene nel 1965 quando Judith Pool scopre i crioprecipitati e l’importanza del loro utilizzo nel trattamento dell’emofilia A. Ne segue un fermento da parte delle aziende capaci di lavorare il plasma sanguigno che porta nei venti anni successivi ad immettere sul mercato una serie di concentrati liofilizzati della coagulazione definiti appunto plasmaderivati. Nel 1977 è anche la volta della desmopressina, trattamento molto efficace in pazienti con deficit parziale del FVIII. Nasce la terapia sostitutiva che migliora notevolmente la qualità della vita degli emofilici, i trattamenti passano da trattamenti esclusivamente “al bisogno” a trattamenti di “profilassi”. Sono però questi concentrati a bassa purezza che hanno portato alla fine degli anni ’80 – inizi anni ’90 alla grande epidemia di HCV e HIV che ha colpito gran parte dei pazienti politrasfusi o trattati con farmaci emoderivati.

Il trattamento dell’emofilia subisce quindi una brusca, ma per fortuna momentanea, battuta d’arresto. E’ in questi anni infatti che l’ingegneria genetica comincia a muovere i primi passi e, grazie agli studi di biologia molecolare, vengono prodotti in laboratorio i primi fattori della coagulazione di origine totalmente ricombinante privi di rischio di trasmissione di patologie virali. Da allora ad oggi molti farmaci ottenuti da ingegneria genetica sono stati immessi sul mercato con caratteristiche diverse atte ad aumentarne l’efficacia e la sicurezza. I nuovi long-acting sono quindi solo un’evoluzione di questi pionieristici farmaci.

Anche i plasmaderivati attualmente in commercio sono comunque farmaci molto sicuri ed efficaci, la purezza e l’abbattimento del rischio di trasmissione virale è ridotto da processi di nano-filtrazione ed inattivazione virale che rendono questi prodotti sovrapponibili a quelli di origine ricombinante, tant’è che le linee guida nazionali ed internazionali sul trattamento dell’emofilia non indicano alcuna predilezione per l’uno o l’altro dei trattamenti.

La preistoria dei trattamenti è stata dunque molto lunga, ma gli ultimi anni sono stati veramente ricchi di cambiamenti per i pazienti emofilici che ne hanno modificato l’aspettativa e la qualità della vita rendendole sovrapponibili a quelle della popolazione generale.

Il futuro inoltre sembra abbastanza roseo, diversi studi sono in corso sui nuovi farmaci sottocute (emicizumab, concizumab, fitusiran) che con meccanismi diversi vanno ad interagire con il difettoso processo emostatico del paziente emofilico, riattivandolo. I risultati dei primi trials sono molto promettenti, l’aspettativa dei pazienti e dell’intera comunità scientifica è quindi molto alta. Anche gli studi sulla terapia genica proseguono, alcuni dati si sono avuti per l’emofilia B, mentre per l’emofilia A siamo ancora agli albori, ma anche qui la strada è aperta e la via segnata.

Aspettiamoci quindi grandi novità nei prossimi anni!

 

Dr.ssa Samantha Pasca
Centro Emofilia di Padova

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