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LA RETE INTEGRATA PER LA CURA DELLE MALATTIE EMORRAGICHE

Il convegno organizzato dall’Associazione Emofilici Piemontesi e dalla dottoressa Alessandra Borchiellini aveva un titolo importante ed in certo qual modo provocatorio: “Coagulopatie congenite: bisogni espressi, organizzazione del Centro Multidisciplinare della Salute”.
Molte e interessanti le relazioni ed altrettanto gli argomenti.
Quella che in qualche modo faceva espresso riferimento al titolo è stata la sesta sessione: “Il PDTA (Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale) delle malattie emorragiche: progressi e progetti. Come scegliere gli indicatori e monitorare i risultati?”.
Non staremo qui a tediare i nostri lettori con queste relazioni molto tecniche e precise (anche troppo…) ma citeremo semplicemente il testo del “Razionale” del depliant illustrativo che diceva quanto segue:
“Il mandato della Regione Piemonte per la definizione della Rete Integrata per la cura delle MEC (Malattie Emorragiche Congenite) in Piemonte e del Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale (PDTA) avviatosi nel 2014, recependo l’Accordo Stato-Regioni del 2013, si è concretizzato nell’anno in corso con la stesura del primo documento che definisce il modello assistenziale ed organizzato per la cura dei pazienti con MEC.
La Città della Salute e della Scienza accoglie due dei quattro Centri Esperti identificati dalla Regione.
La giornata, nasce quindi come momento di riflessione sugli obiettivi raggiunti e come punto di partenza per l’avvio della fase applicativa confrontando le competenze locali già maturate negli anni dagli specialisti che in Città della Salute si occupano di MEC e l’esperienza Nazionale”.


Come detto non lo faremo però partiremo da un fatto e cioè che in Piemonte si presenta il progetto di un accordo Stato-Regioni avviato già nel 2014, ben tre anni fa.
Ci risponderà invece la dottoressa Borchiellini alla quale abbiamo chiesto quali tempi sono ipotizzabili.

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“Sui tempi non so proprio dire, nel senso che mi sembra tutto talmente lungo, talmente farraginoso e talmente complesso che non ho proprio idea. Perché visti i tempi, già talmente allungati fino ad ora per arrivare a questa bozza di organizzazione, che non so ancora quanto ci vorrà per raggiungere poi l’obiettivo finale.
Quello che è preoccupante secondo me è che rischiamo di perdere anche quello che già abbiamo perché se non si dà forza a quella rete che adesso c’è ma che è fatta di persone, di singoli che si occupano, come abbiamo visto oggi, del problema, con la propria buona volontà, con la propria capacità, ma fondamentalmente come singoli, un po’ alla volta perdiamo anche questo, perché i professionisti coinvolti perdono non solo la volontà ma anche le risorse e l’energia per continuare a portare avanti questo progetto
Quindi temo non solo che non si arrivi in fretta alla creazione e all’irrobustimento della rete ma addirittura che si perda quello che c’è, perché la forza individuale viene meno”.

E veniamo quindi a coloro ai quali è rivolto il servizio. Quanti pazienti seguite al Centro della città della salute?
“In totale sono 600, con tutte le coagulopatie. con emofilia A grave sono circa 54 e 8 con emofilia B grave”.

Quanti medici oltre a lei?
“Al momento riconosciuti dall’azienda soltanto io, perché l’altra figura in qualità di medico che c’è ed è fondamentale, non è strutturata.
Il Centro dispone anche di una amministrativa, anch’essa supportata con i fondi privati, il cui ruolo non è riconosciuto dall’Azienda e che invece è fondamentale per i rapporti con i pazienti, per l’organizzazione delle visite periodiche e il coordinamento delle diverse esigenze e accertamenti di cui il paziente necessita cercando di convogliare in una unico accesso più prestazioni possibili”.

Non sono previsti concorsi che possano permetterle di acquisire altri professionisti?
“Dovrebbe esserci ma per il momento stanno continuando a rinviare la normalizzazione della persona che dovrebbe essere affiancata a me.
È un continuo posticipare”.

Lei svolge la sua attività in un Centro cosiddetto MEC (Centro Emorragico Malattie Congenite), ma quando si tratta di programmare i controlli periodici dei pazienti, nel nostro caso emofilici, dispone facilmente dei vari specialisti?
“Per alcune realtà e consulenze è un po’ più facile, come ad esempio il gastroenterologo che ha parlato questa mattina, una persona che conosce la patologia, la sa sorvegliare e vigilare.
Altrettanto strutturato è il rapporto con la riabilitazione.
Più complesso è il monitoraggio ortopedico dove il collega referente cerca uno spazio all’interno delle molteplici attività giornaliere per aiutarci..non siamo riusciti per il momento a creare uno spazio ambulatoriale fisso.
Per quanto riguarda l’intervento chirurgico qualora vi sia l’esigenza sia in campo ortopedico che in qualsiasi altra branca non abbiamo problemi. Godiamo per fortuna di eccellenze in ogni ambito all’interno dell’azienda e questo permette ai pazienti emofilici di avere un ottimo livello di assistenza.
Diversa è l’attività di follow up ambulatoriale, più complicata per mancanza di risorse umane e di un percorso organizzato che garantisca medico e paziente”.

E in regime di urgenza h24 come siete organizzati?
“Ho una reperibilità telefonica notturna e per i giorni festivi per il Pronto Soccorso, quindi se un paziente arriva, mi chiamano.
Durante la settimana siamo organizzati che più o meno fino alle 18 siamo negli ambulatori e quindi qualcuno a cui fare riferimento c’è, ma per esempio non abbiamo il Dect. Ce l’avevano dato in precedenza per essere rintracciati in ospedale e adesso non lo abbiamo più.
I pazienti hanno però la possibilità di fare riferimento a una segretaria pagata con fondi privati il cui ruolo non è riconosciuto dall’azienda e che invece è fondamentale per i rapporti con i pazienti, per l’organizzazione delle visite periodiche e il coordinamento delle diverse esigenze e accertamenti di cui il paziente necessita cercando di convogliare in una unico accesso più prestazioni possibili”.

Nella presentazione del razionale del depliant illustrativo del convegno lei scrive: “…la giornata nasce quindi come momento di riflessione sugli obiettivi raggiunti – mi dica quali – e come punto di partenza per l’avvio della fase applicativa confrontando le competenze locali già maturate…”.
“Ciò che siamo riusciti a fare fino ad oggi ed a mantenere, sono le competenze, cioè le varie professionalità: i colleghi  conoscono i malati, sanno qual è il problema. Questo è quello che abbiamo raggiunto. Non lo abbiamo però raggiunto in modo ufficiale, ma attraverso una rete sotterranea che si è costruita nel tempo e che è andata crescendo grazie alla collaborazione, alla fiducia che c’è fra colleghi e in realtà il paziente riesce ad avere poi una buona professionalità ma è un nostro sforzo individuale e la pazienza…. del paziente.
È un percorso secondo me fatto molto bene perché le persone che ci sono, sono molto competenti e molto disponibili. Purtroppo non abbiamo niente che ci aiuti dal punto di vista istituzionale.

La collaborazione con il Politecnico nasce proprio dalla necessità di far emergere il nostro lavoro sotterraneo, affinché venga dato valore  a ciò che facciamo e venga supportato istituzionalmente”.

Lei ha parlato di livello istituzionale. L’Associazione è presente, conta in qualche cosa, riesce in qualche modo a incidere sulle decisioni nei confronti delle politiche sanitarie?
“L’Associazione è stata molto presente in questo ultimo anno.
Vedendo che la situazione stava peggiorando e da tre medici dedicati al Centro di Emostasi e Trombosi  ero rimasta l’unica, si è capito che era un momento delicato e sono stati molto presenti e molto attivi. Purtroppo credo che il problema sia riuscire a trovare l’interlocutore giusto che sia sensibile e anche sensibilizzato”.

Pensate in qualche modo, attraverso questo convegno di essere riusciti a sensibilizzare l’autorità sanitaria che abbiamo visto presente nella giornata?
“Non so. Credo che sicuramente si siano resi conto della necessità assistenziale che abbiamo presentato ed è già un passo avanti, ma credo che si debba vigilare e mantenere uno stretto monitoraggio sull’avanzamento del progetto affinché non  il progetto si avviti su se stesso senza portare a risultati che aiutino i pazienti e i medici dei Centri Emofilia”.

Abbiamo sentito al recente triennale di Napoli ed anche qui a Torino come si faccia oggi affidamento per il miglioramento dell’assistenza sulla personalizzazione della cura. Lei, nella condizione di precarietà in cui è costretta a lavorare come trova il tempo da dedicare a questo importante momento della cura del paziente emofilico?
“Sono un’entusiasta del mio lavoro e ho preso questo momento di grande difficoltà di gestione come una sfida. La dottoressa Valeri ed io abbiamo obiettivi comuni, questo ci aiuta; abbiamo istituito un pomeriggio alla settimana di attività ambulatoriale solo per i pazienti con emofilia dove abbiamo tempo per rivedere i piani terapeutici, ascoltare il paziente e decidere quali sono le necessità più urgenti da qui si parte per  programmar esami, controlli della farmacocinetica  e approfondimenti specialistici.
La forza del Centro è l’entusiasmo dei medici che vi lavorano, la pazienza e il supporto dei pazienti che da anni conoscono la qualità del nostro lavoro quotidiano.
La mia speranza è che non si esaurisca tutta questa carica di energia positiva prima della realizzazione del progetto”.


Avevamo incontrato la dottoressa Antonia Follenzi la prima volta nel marzo del 2010 e ci parlò allora di una possibile cura dell’emofilia mediante un trapianto di cellule endoteliali del fegato in topi emofilici.
(I nostri lettori più affezionati possono rivedere l’intervista alle pagine 6/11 del numero di marzo/aprile del 2010 – N.d.R,).
Fu un colloquio lungo e circostanziato durante il quale conoscemmo la sua vita professionale, i suoi studi, la sua “fuga” dal nostro Paese ed anche il suo ritorno.
Le chiedemmo perché avesse scelto l’emofilia per le sue ricerche e lei ci disse che il suo primo lavoro datato anno 2000 era proprio sulla terapia genica dell’Emofilia B.
Ci disse che aveva lavorato con il prof. Naldini al San Raffaele per cinque anni (lo abbiamo intervistato nel 2015 assieme al suo gruppo di ricercatori ricercatore del TIGET e si può leggere l’intervista nel numero di maggio  alle pagine 12/16 – N.d.R.).
Aveva sperimentato il transgene terapeutico del fattore IX poi era passata al fattore VIII.
Ci parlò anche del suo progetto finanziato da Telethon e del premio vinto assegnato dalla CSL Behring.
Insistendo soprattutto sull’importanza del lavoro di squadra, ci fece i nomi dei suoi “ragazzi”, (lei che allora aveva appena 43 anni) Simone, Stefania, Gabriella, ai quali sperava di poter continuare a dare borse di studio.
Ricordiamo anche che era già ricercatrice e docente dell’Università del Piemonte Orientale con sede a Novara e dell’Einstein College of Medicine di New York.
Una frase che ci colpì fu: “Sono un medico anch’io, ma non sono un’ematologa, non ho mai trattato un paziente emofilico, quindi come posso capire se quello che sto pensando è giusto o solo frutto della mia fantasia. Devo confrontarmi con chi si occupa dei pazienti”.
Aveva infatti iniziato una collaborazione con la dott.ssa Schinco dell’ospedale Le Molinette di Torino, quell’ospedale che in questo convegno abbiamo conosciuto come “Città della salute”.
Ci parlò poi in conclusione del ruolo della terapia cellulare e della necessità di sviluppare collaborazioni sempre più allargate.
Infatti prima del suo intervento al convegno di Torino ci consegna uno stampato dal titolo “HemAcure” nel quale scrive tra l’altro: “Lo scopo principale è lo sviluppo di un trattamento permanente ex vivo, basato sulla terapia cellulare, per il trattamento della forma severa di emofilia A”.
In questo stampato è inserita una cartina che riproduciamo ed è lo specchio visivo e concreto di ciò che aveva affermato allora: “sviluppare collaborazioni più allargate”.

Ci sono anche descritti gli obiettivi:
“Le cellule corrette geneticamente dovrebbero produrre il fattore VIII della coagulazione in maniera continuativa e rilasciarla nel circolo ematico a livelli terapeutici per un lungo periodo di tempo.
Perciò la tecnologia in sviluppo dal consorzio “HemAcure”, basata sull’utilizzo della terapia cellulare e genica, dovrebbe migliorare la qualità della vita dei pazienti con emofilia rispetto alle terapie standard attualmente in uso, riducendone contemporaneamente i costi.
Oltre al trattamento dei pazienti affetti dalla forma grave della malattia, questo nuovo approccio dovrebbe permettere la cura di forme meno severe e di un numero significativo di pazienti al momento non trattati”.
Abbiamo ascoltato la sua relazione per altro, come sempre, puntuale, precisa e alla portata di tutte le orecchie; per intenderci, in un convegno dove sono presenti oltre ai medici anche i pazienti.

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Dottoressa Follenzi, vorrebbe sintetizzarci di che cosa si tratta, come state procedendo, a che punto è questa ricerca ed in quale contesto potrebbe inserirsi in un momento particolarmente vivace per quanto riguarda i nuovi farmaci ed anche la ricerca?
“Le persone affette da emofilia A mancano di uno dei fattori responsabili della coagulazione del sangue: il fattore VIII (FVIII).
Di conseguenza i pazienti hanno un prolungato tempo di sanguinamento. Nonostante attualmente sia disponibile un trattamento efficace dei sintomi, non esiste ancora una terapia definitiva.
I pazienti devono ricevere per tutta la vita iniezioni di fattore VIII ricombinante (rFVIII) per compensare l’assenza del fattore della coagulazione.
Lo scopo principale del nostro progetto di ricerca HemAcure è lo sviluppo di un trattamento permanente ex-vivo, basato sulla terapia cellulare e genica, per il trattamento dell’emofilia A.
Il prodotto clinico che il consorzio sta sviluppando utilizzerà le stesse cellule dei pazienti, prelevate dal sangue periferico, modificate geneticamente utilizzando vettori lentivirali con l’aggiunta di una nuova “copia” funzionante del gene del FVIII (nella forma più corta in cui è stato eliminato il dominio B, ininfluente per la coagulazione) sotto il controllo di un promotore endoteliale.
Queste cellule geneticamente modificate, una volta caratterizzate per il fenotipo endoteliale, vengono inserite in un dispositivo pre-vascolarizzato posizionato sottocute.
Dopo attecchimento le cellule corrette rilasceranno il FVIII raggiungendo livelli terapeutici così da ridurre significativamente i sanguinamenti associati alla malattia ed i danni articolari, che sono le manifestazioni cliniche più comuni nelle persone colpite da emofilia.
Inoltre, il rilascio del FVIII dalle cellule geneticamente modificate dovrebbe ridurre, se non eliminare, la necessità di molteplici infusioni settimanali, che finora ha rappresentato la terapia standard.
In questi ultimi due anni il lavoro svolto ci ha portato ad ottenere e caratterizzare le cellule dai pazienti e dopo la correzione genetica le abbiamo caratterizzate per verificare che avessero acquisito la capacità di produrre e secernere FVIII per procedere all’amplificazione di queste cellule corrette da trapiantare in un modello murino di malattia.
Infatti questa prima parte del lavoro viene eseguita in topi emofilici immunocompromessi che supportano il trapianto di cellule umane.
Finora abbiamo verificato che le cellule corrette trapiantate sono in grado di correggere il fenotipo emorragico dei topi emofilici fino a 3 mesi misurato con un saggio a medio termine. Bisogna anche considerare che la vita media di questi topi è circa un anno e già essere in grado di correggerne il fenotipo emorragico per un quarto della vita con una sola infusione cellulare è un ottimo successo.
Adesso stiamo amplificando le cellule umane per validare e confermare i nostri risultati nel dispositivo pre-vascolarizzato posizionato sottocute dei topi emofilici prima di richiedere nuovi fondi di ricerca per sviluppare ulteriormente il nostro approccio terapeutico.
Siamo fiduciosi in quanto il dispostivo pre-vascolarizzato che utilizziamo è già stato approvato dalla FOOD and DRUG administration (l’organo regolatorio americano) e a breve verrà utilizzato in un trial clinico negli USA per il trapianto delle isole pancreatiche nella terapia del diabete di tipo 1.
Il gruppo di ricerca, riunitosi nel “HemAcure Consortium” e coordinato dalla University Hospital Würzburg (Germania), lavora dal 2016 per cercare di migliorare le condizioni di vita dei pazienti affetti da questa patologia.
Il nostro gruppo di ricerca all’Università del Piemonte Orientale (UPO), presso il dipartimento di Scienze della Salute a Novara è responsabile della correzione genetica delle cellule isolate dal sangue periferico dei pazienti emofilici e della valutazione dell’attività del FVIII nelle cellule corrette in vitro e in vivo nel modello preclinico murino.
I partner del “HemAcure Consortium”, oltre all’UPO e all’Università di Würzburg, sono la Loughborough University (Regno Unito) e le aziende “IMS” (Germania), “ARTTIC” (Germania) e “Sernova Corp.” (Canada).
Naturalmente il nostro prodotto deve fare i conti con i nuovi farmaci con lunga emivita e con i protocolli di terapia genica in corso.
Ad esempio con il recente successo riportato proprio il mese scorso sul New England Journal of Medicine da parte di un gruppo britannico in cui, con l’infusione di un vettore virale che esprime FVIII in maniera specifica negli epatociti, sono stati in grado di correggere il fenotipo emorragico dei pazienti emofilici senza la comparsa di inibitori.
Ritengo che al momento non si può ancora dire di aver trovato il prodotto ideale per la terapia emofilica e continuiamo a lavorare senza perdere l’entusiasmo e sicuramente il nostro approccio di terapia cellulare e genica insieme rimane attraente per il fatto che le cellule dei pazienti vengono corrette prima di essere reinfuse nel paziente”.


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Dottoressa Forneris, lei ha conosciuto l’emofilia attraverso il progetto FORTE, ma già studia la materia, attualmente qual è il tuo percorso lavorativo? Come ci è arrivata, attraverso la conoscenza dell’emofilia e quanto è stato importante il “progetto FORTE”?
“È stato importante perché innanzi tutto mi ha permesso un primo confronto con professionisti di alto livello, in primis tutta l’equipe della Domus Salutis di Brescia, i quali ci hanno messo a conoscenza di una serie di particolari inerenti la patologia. Inoltre, il progetto FORTE è stato fondamentale nella formazione di tutti i professionisti della riabilitazione in quanto ha integrato una parte pratica, fornendo una visione più completa della patologia.
Dopo il progetto FORTE ho continuato a formarmi anche in maniera indipendente nel senso che ho cercato sempre di partecipare a tutti i congressi sia nazionali che internazionali, non mancando agli appuntamenti principali e avendo anche un continuo scambio con colleghi di fama internazionale”.

Attualmente che ruolo svolge e come lavora?
“Ho una borsa di studio dal 2009 a cadenza annuale presso il centro emofilia pediatrico dell’Ospedale infantile Regina Margherita di Torino, dove mi occupo esclusivamente del management riabilitativo nel paziente emofilico”.

Ha detto una cosa importante nel tuo intervento al convegno di Torino facendo riferimento alla fisioterapia: “il ruolo della fisioterapia è anche terapeutico”, perché e come procede?
“È anche terapeutico perché nel momento in cui ad esempio si ha un evento emorragico in fase acuta, è indispensabile la somministrazione della terapia sostitutiva in primissima battuta, ma se il paziente ha la possibilità di recarsi presso il proprio Centro, laddove vi sia un fisioterapista dedicato, è molto meglio perché riusciamo anche a curare quello che è l’aspetto più funzionale dell’articolazione. Sappiamo perfettamente che quando c’è un evento emorragico in fase acuta si ha dolore, impotenza funzionale ed una limitazione importante del movimento, quindi va bene intervenire sull’emorragia ma è anche necessario preoccuparsi di quello che è il funzionamento dell’articolazione. Con un approccio riabilitativo tempestivo che ovviamente deve essere soft in prima battuta, riesco a contenere i risvolti immediati di quell’episodio, riuscendo anche a far si che la funzione venga recuperata in tempi molto più celeri rispetto a quando non viene trattato”.

Al convegno di oggi hai affermato che il ruolo diagnostico in una valutazione clinico-funzionale può servire per costruire un progetto su misura per ogni paziente. Mi sembra un discorso molto importante quando oggi parliamo di terapia personalizzata mirata per ogni emofilico.
“Assolutamente sì. Ritengo che la parola chiave in questo caso sia “personalizzazione” dell’intervento terapeutico-riabilitativo, dove il progetto riabilitativo deve essere ovviamente sempre in associazione all’intervento terapeutico per produrre un outcome (risultato) favorevole. Se riusciamo ad integrare la fisioterapia alla terapia farmacologica allora riusciremo ad ottimizzare quelli che sono i benefici per il paziente stesso”.

Ha affermato anche che per voi fisioterapisti “non esistono linee guida che forniscono una metodologia di lavoro” e quindi a questo punto come procedete?
“Tramite l’esperienza acquisita in primis e cercando di migliorare continuamente la qualità del servizio. Io ad esempio quest’anno ho iniziato a scrivere la tesi per la laurea magistrale dove andiamo a definire tutto il percorso terapeutico riabilitativo nelle diverse fasi della patologia quindi dalla gestione dell’evento in fase acuta alla fase cronica, al pre e post operatorio, alla gestione del paziente con inibitore, o la fase di check up, in modo da riuscire a definire ogni singolo processo che porta poi alla definizione di quella che è la metodologia di lavoro finale”.

Io penso, da vecchio emofilico “honoris causa” che ci sia stata e forse vi è sfuggita di mano una sorta di esagerazione, perché quando parliamo di attività fisica lo facciamo con lo scopo di migliorare la qualità della vita oltre, naturalmente anche di una certa attività sportiva che non guasti, mentre voi alla maratona di New York avete fatto una cosa molto più avanzata.
Come si legano le due cose? Secondo me il messaggio è stato sbagliato.
“Sono contenta di questa domanda così ho la possibilità di chiarire anche questo aspetto.
Devi considerare che la maratona è stato il tassello finale di un lungo percorso di preparazione e rappresentava la situazione nella quale potevamo avere un certo tipo di visibilità e lanciare il messaggio che tutti noi c’eravamo prefissati, ovvero che l’allenamento personalizzato in associazione al trattamento riabilitativo e supportato dalla terapia sostitutiva, avrebbero permesso al paziente emofilico di condurre uno stile di vita quanto più possibile “normale”. Il paziente emofilico si deve poter sentire come un proprio coetaneo.
L’intento era quello di lanciare una sfida per poter dire che anche un paziente emofilico deve avere la possibilità di fare attività fisica e sportiva, la quale deve essere adattata alle potenzialità di ognuno secondo quello che ho detto prima durante la relazione. È importante procedere con un’analisi preliminare di quelle che sono le alterazioni a livello di sistema muscolo scheletrico, quindi bisogna avere una fotografia della situazione molto più che chiara e globale dell’intera persona e di conseguenza costruire un progetto terapeutico riabilitativo e in questo caso anche di allenamento, cucito addosso alla persona perché il paziente emofilico può e deve fare attività sportiva.
Considerando che fino a poco tempo fa veniva detto ai pazienti emofilici che non si potevano muovere ed erano costretti a vivere la propria vita come in una campana di vetro, o nel momento in cui avevano un emartro venivano costretti a letto e magari anche immobilizzati in una doccia gessata, quello che si è voluto scardinare è proprio questo pensiero “rigido”. Si può condurre una vita normale con delle accortezze ma devono i pazienti devono essere seguiti da professionisti competenti”.

Ha detto una cosa importante: professionisti capaci.
Ha anche detto un’altra cosa: un centro MEC deve avere ruoli polifunzionali, cioè deve avere tutte le specializzazioni che sono altrettanto importanti.
Lei dal 2009 fa questo lavoro e va avanti con delle borse di studio, quindi pensi che potrebbe essere utile riproporre il progetto FORTE e se sì perché?
“Penso che potrebbe essere utile perché poter formare altri professionisti sul territorio nazionale è di estrema importanza. Noi dobbiamo poter creare una rete di professionisti sul territorio. Innanzi tutto è fondamentale che i Centri principali abbiano un professionista di riferimento alla quale si possono appoggiare anche per la riabilitazione e poi ovviamente faccio l’esempio del Piemonte: per un paziente che abita ad Asti sarebbe sicuramente più agevole se potesse avere un professionista competente in un raggio di km ragionevoli vicino a casa in modo tale da seguire un percorso anche con una certa continuità.
Se lo stesso paziente deve venire da me a Torino magari tre volte alla settimana fa un po’ fatica quindi dobbiamo migliorare anche questi aspetti logistici della gestione del paziente emofilico.
E poi onestamente, non ritengo sia utile accentrare tutto su un’unica persona, perché va bene la competenza specifica però è anche importante che ci sia una rete e un certo grado di collaborazione tra i diversi professionisti”.

Ha fatto un’altra affermazione importante, hai parlato di iniziare dai bambini, quindi noi Associazioni di volontariato e dei pazienti cosa possiamo fare a livello istituzionale per aiutare voi professionisti a fare in modo che si crei un ruolo specifico?
“Strutturare dei percorsi, questa è l’unica cosa che mi viene da dire.
Purtroppo penso che ci siano una serie di problematiche burocratiche e non mi sento di entrare in merito alla questione perché ovviamente non è una cosa che mi compete direttamente. Probabilmente professionisti sanitari e associazioni dovrebbero unire le forze per ottenere dei risultati che possano cambiare in meglio la situazione attuale”.

In nove anni ti sei fatta un’esperienza molto importante.
Se qualcuno ti offre la possibilità di andare a lavorare a tempo indeterminato con un ruolo preciso, visto che vai avanti con una borsa di studio, lasceresti il posto che hai in questo momento, che non è un posto fisso per andare a lavorare con sicurezza?
“Non ti so rispondere neanche a questa domanda. Probabilmente non sono mai stata legata all’idea di avere un posto fisso che durasse tutta la vita. Certo è che dopo anni di borsa di studio mi piacerebbe che la mia situazione lavorativa fosse maggiormente tutelata. Senza considerare il fatto che può non essere garantita la continuità terapeutica ai pazienti.
Non ti nascondo che non mi dispiacerebbe andare a lavorare all’estero, dove si ritrova maggiore elasticità e il professionista della riabilitazione riveste un ruolo di primordine”.

Questa con Eleonora Forneris, ce ne rendiamo conto, non è stata una delle solite interviste in cui si analizzano precorsi e situazioni e questo va tutto a merito suo, perché ci ha parlato molto fuori dagli schemi soliti e ci ha esposto alcune situazioni che già conoscevamo ma che non avevamo mai trattato in profondità.
Questi, a nostro modesto avviso, sono i professionisti che ci servono per un futuro sempre più a misura di paziente.

 

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