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RUBRICA PSICOLOGICA – LA MALATTIA ORGANICA TROVA SPAZIO NEL SE’?

Settima puntata della rubrica psicologica.
La dottoressa Gagliardini parla dell’accettazione della malattia organica.
Nella presentazione della rubrica affermava che i temi affrontabili in questo campo sono molti: il corpo, la malattia, la genitorialità, il rapporto tra fratelli, la scolarità, la psicosomatica, il rapporto di coppia.
Nel nostro giornale spesso, parlando di emofilia, tendiamo a evidenziare che è una patologia che coinvolge tutta la famiglia.
In questo caso la dottoressa Gagliardini parla del paziente si trova di fronte a se stesso, e cioé: “la malattia lo porta a rifiutare una parte del proprio corpo, anche se malata, porta a cancellare una parte di sé”.
E qui affiorano la paura del confronto con gli altri, il rifiuto della richiesta di aiuto.
A questo punto ci parla della lettura di un bellissimo libro per bambini: “Iole, la balena mangiaparole”.
Da qui poi affronta inevitabilmente il rapporto con i genitori che anche in questo caso è fondamentale e cioé la parola, il dialogo e, soprattutto, l’ascolto.
“Io penso che forse in taluni casi ciò che sia mancato è l’ascolto dell’altro che empaticamente restituisca il dolore di un vissuto permettendo la creazione di una nuova esperienza emotiva fatta di comprensione, significazione, attenzione e trasformazione”.


In questo breve scritto vorrei accennare ad alcuni concetti che ritengo molto importanti rispetto l’accettazione della malattia organica.
Rifiutare una parte del proprio corpo, anche se malata, porta a cancellare una parte di sé.
Negarla, scinderla, espellerla dalla propria mente potrebbe indurre a un rifiuto delle cure, a una mancata partecipazione alle attività associative, ma anche il rifiuto di richiedere un sostegno psicologico in momenti di difficoltà fino a sviluppare forme importanti di disagio psicologico.
Ad esempio si potrebbe sviluppare un ritiro dal mondo esterno per la paura di confrontarsi con l’altro sentito come diverso.
Qualsiasi tipo di chiusura verso la conoscenza o verso la possibile richiesta di aiuto crea un arresto nello sviluppo psichico.
La mente va continuamente nutrita e arricchita come ogni altra parte del corpo.
Un bellissimo libro per bambini racconta di una balena che si alimenta delle parole di un poeta che passa le sue giornate su una barchetta a scrivere e recitare poesie.
L’introiezione permette al cetaceo di costruire immagini e storie.
Questo sviluppa la capacità associativa attraverso la quale una parola segue l’altra, riducendo il sistema difensivo mentale.
Questo meccanismo, in fondo creativo, è la base per la costruzione della capacità rappresentativa, vero nutrimento della psiche.
Infatti, se un’area della mente viene, forclusa, espulsa, allora si genera un impoverimento mentale che può sviluppare disturbi psichici o psicosomatici.
Marilia Aisenstein nel suo articolo “Les exigences de la représentation” (2010, p.1368) rileva che “… l’immagine nel suo incontro con il linguaggio è un materiale essenziale alla vita dell’anima ….”.  
Questa necessità rappresentativa dell’individuo è sollecitata e investita dall’altro (padre, madre) fin dall’inizio.
Per questo, se il genitore fatica nell’accettazione della malattia del figlio, collude con un processo di negazione ed espulsione di contenuti affettivi ed emotivi dalla psiche, creando forme di vuoto o di mancato riconoscimento di sé.
Un genitore ha il compito di “digerire” le emozioni del figlio per renderle sopportabili e quindi introiettabili.
Se questo meccanismo funziona, allora l’individuo può tenere dentro di sé un vissuto che non è più pericoloso.
In questo modo non è necessario difendersi fino all’estremo dell’annullamento psichico.
Percepire la difficoltà dell’altro e costruirne un significato fa sentire la vicinanza, la comprensione, l’empatia riducendo il senso di paura, solitudine e impellenza alla difesa. In caso contrario, se manca questa capacità di tenuta, c’è un rovesciamento emotivo, una scarica emozionale che invade l’individuo che non solo deve farsi carico del suo sentire, ma anche di quello del genitore che ha paura del crollo.
Il risultato è la costruzione di un sistema difensivo verso un mondo emotivo incontrollabile e intollerabile che non permette la trasformazione di elementi grezzi in pensieri come ci racconta Bion nei suoi scritti.
La mente, come tutti gli altri organi, ha bisogno di essere curata, sollecitata e allenata per il raggiungimento di un adeguato sviluppo.
A volte l’esperienza traumatica, come la comunicazione di una malattia, crea uno squilibrio nella tenuta emotiva che rischia di fissarsi in dinamiche che diventano disfunzionali anche se apparentemente protettive.
Pensiamo che se buchiamo la gomma della macchina possiamo ripararla, in un primo momento, montando un ruotino, ma alla fine bisogna sostituirlo con una gomma che tenga realmente la strada e mantenga la giusta tenuta.
Così se in un primo momento la mente si difende attraverso un meccanismo riparatorio, successivamente deve mettere in atto un processo trasformativo per evitare la rottura finale del sistema difensivo.
Il primo atto è di permettersi l’apertura verso un processo trasformativo portatore di creatività e flessibilità.
L’irrigidimento di un arto, così come della psiche, crea patologie e disagio.
La flessibilità psichica si raggiunge attraverso la costruzione di un apparato che possa pensare, ma per arrivare a questo risultato è necessario l’incontro con un altro che presta al bambino la propria mente per costruire immagini, fantasie, rappresentazioni creando un senso del mondo che lo circonda e delle emozioni che prova.
Un po’ come quando Winnicott, nella terapia con i bambini, usa il gioco dello scarabocchio che consiste nel fare un primo segno su un foglio che verrà piano piano completato dalla coppia terapeuta-bambino per costruire un’immagine finale alla quale si attribuirà un’interpretazione che acquisti quel significato digeribile per poterlo tenere dentro di sé e recuperarlo come risorsa in un secondo momento.
Si sottolinea così l’importanza della parola.
La parola che conferma la percezione del sentito, la parola che rende comunicabile il terrore, la parola che apre alla comprensione.
Se manca lo spazio di espressione, si rischia un iperinvestimento della fantasia che ingrandisce il potenziale di tensione che lo avvolge. Se un bambino ha paura del buio e sente che non ne può parlare, perché percepisce un disagio nell’adulto, questo incrementerà la sua angoscia perché sente l’intollerabilità del contenuto in chi si prende cura di lui.
Il rimando è un eccesso che non trova spazio di significazione, ma dal quale la mente si deve difendere. Forse, non a caso, alcuni deportati hanno scritto la loro terribile esperienza dei campi di concentramento per trovare, attraverso la scrittura, il senso di una tragedia incomprensibile.
Purtroppo per alcuni di loro questo tentativo di riscattare parte della propria storia non ha trovato esito positivo, come Primo Levi.
Io penso che forse in taluni casi ciò che sia mancato è l’ascolto dell’altro che empaticamente restituisca il dolore di un vissuto permettendo la creazione di una nuova esperienza emotiva fatta di comprensione, significazione, attenzione e trasformazione.
Esperienza che si differenzi da quella distruttiva della guerra e degli stermini, del rifiuto dell’altro e della diversità.
Un’esperienza di condivisione dove l’altro si offre come schermo bianco dove le tracce della sofferenza possano iscriversi per sentirne il contenimento e la significazione.
Penso ad alcuni pazienti che a volte hanno paura di raccontare parte della propria storia di sofferenza per la preoccupazione di distruggere il terapeuta attraverso il dolore intenso.
Naturalmente questo pensiero è dovuto al fatto che il paziente sente di avere dentro di sé qualcosa d’insostenibile, distruttivo che ha paura di condividere.
Una frase tratta dal titolo di un romanzo di Cameron “Un giorno questo dolore ti sarà utile”, che mi piace spesso citare, ci riporta alla necessità di riuscire a sentire il dolore, attraverso un’esperienza di senso che possa trasformarsi in un ricordo accettabile per la mente.
Forse alcune ferite non troveranno la sutura perfetta, esteticamente non nasconderanno completamente l’impatto con il traumatico, ma almeno avranno smesso di sanguinare.

Anita Gagliardini
agagliardini@libero.it

Bibliografia
Aisestein M. (2010), “Les exigences de la représentation”, Revue francayse de psychanalyse, n. 5, tome LXXIV, Ed. Puf
Cameron P. (2010), “Un giorno questo dolore ti sarà utile”, Ed. Adelphi
Marchegiani G. (2015) “Iole. La balena mangiaparole”, Ed. Gribaudo
Winnicott D. (1994), “ Colloqui terapeutici con i bambini”, Ed. Armando