Questa intervista fa parte di un progetto informativo ed è una sorta di continuazione alla precedente di due anni fa (vedere EX di novembre 2020 alle pagine 8/11).
Per questo motivo abbiamo chiesto alla prof.ssa Peyvandi di descrivere l’attuale organizzazione del Centro da lei diretto: l’organico assistenziale, come è realizzata l’assistenza globale per i pazienti affetti da MEC e quali sono i percorsi per accedere ai vari specialisti.
“Il centro emofilia e trombosi Angelo Bianchi Bononi ha sempre mantenuto caratteristica di multidisciplinarietà.
La multidisciplinarietà, ancora di più oggigiorno diventa un’esigenza fondamentale di un centro che funga da punto di riferimento, anche a livello internazionale, che deve prevedere molteplici servizi per un paziente emofilico, alla luce delle terapie nuove a lunga emivita, sottocute e della terapia genica che è stata approvata recentemente in Europa. Cosa vuol dire?
Quello che ho cercato di fare col mio team, nell’ultimo periodo, è rendere il centro realmente multidisciplinare, per cui sono costantemente presenti al centro da me diretto sia ematologi sia internisti che curano il paziente per le esigenze di ogni giorno, ma assicurano anche la presenza nel momento delle urgenze con un servizio di reperibilità h24.
Inoltre, i pazienti emofilici vengono visti almeno una volta all’anno durante le visite di check-up dall’ematologo e dall’internista che valutano la loro situazione clinica in collaborazione con i nostri ortopedici e fisioterapisti.
Insieme si osservano la terapia in corso, la sua adeguatezza e la sua efficacia terapeutica; si informa il paziente dell’esistenza o del prossimo arrivo di farmaci nuovi e se ne discute insieme; infatti invito tutti loro sempre ad informarsi, a leggere e a tornare da me successivamente per decidere insieme la terapia adeguata secondo le loro esigenze specifiche (terapia personalizzata).
Durante questo percorso, parliamo con l’ortopedico e il fisioterapista perché valutiamo se la condizione articolare del paziente è adeguata alla terapia che sta facendo; dobbiamo distinguere i pazienti, per esempi i bambini che non hanno normalmente artropatia, perché sono stati trattati negli anni con una buona profilassi.
Nei pazienti che invece hanno superato i 40 anni ovviamente la condizione articolare si differenzia. Inoltre in questi pazienti che possono avere altre patologie associate (cosa che succede anche nella popolazione generale), lavoriamo anche sulla salute cardiocircolatoria; i medici internisti del Centro gestiscono un ambulatorio pomeridiano alla settimana durante il quale vengono effettuati ecocardiogramma ed ecodoppler dei tronchi sovraortici per la valutazione della salute e della condizione delle arterie del collo e per capire se è presente un’arteriosclerosi accelerata o normale.
Ma un altro aspetto che vorrei sottolineare è quello della salute del fegato del paziente emofilico. Generalmente, a seguito dell’eradicazione del virus dell’epatite C, che per fortuna avviene per quasi tutti i pazienti, ci si concentra maggiormente su altri aspetti della salute del paziente emofilico.
Tuttavia, bisogna tenere conto che ugualmente un terzo della popolazione generale, anche a causa di un’alimentazione non corretta, potrebbe avere un fegato grasso, condizione che va messa sotto cura.
Per il paziente emofilico ancora di più.
Inoltre l’eradicazione del virus dell’epatite C non risolve la condizione architettonica del fegato, che invece necessita di controlli approfonditi.
Ecco perché ho voluto che ci fosse un ambulatorio settimanale del prof. La Mura che si occupa della salute del fegato. Questo diventa davvero importante in un momento in cui stiamo aprendo il Centro anche per la terapia genica, perché la selezione dei pazienti per questo tipo di terapia deve essere molto accurata, e deve tener conto di eventuale precedente eradicazione del virus dell’epatite C.
In alcuni di questi pazienti, per esempio, abbiamo assistito a una transizione da cirrosi a epatocarcinoma che hanno necessitato di trapianto di fegato.
È evidente quindi come la multidisciplinarietà sia fondamentale e come il team di diversi specialisti lavori in concerto per un’adeguata valutazione della salute generale del paziente.
Se poi consideriamo gli aspetti femminili, è importante coinvolgere il ginecologo, non solo per le donne portatrici di emofilia e affette da malattie di von Willebrand, ma anche per le pazienti con altre coagulopatie che possono avere problemi di menometroraggia (è un’eccessiva perdita di sangue dall’utero che può essere associata alle mestruazioni o presentarsi in altri periodi del ciclo.
Può essere il sintomo di molti diversi problemi di salute, dagli squilibri ormonali all’endometriosi, a fibromi uterini benigni o a sanguinamenti durante il parto.
di fare affinché il nostro Centro abbia un approccio multidisciplinare”.
Quali sono stati o possono essere i principali ostacoli alla realizzazione di un centro così concepito?
“Il danno vero è stato fatto dalle aziende farmaceutiche, come ho già annunciato anche a livello internazionale, perché ci sono tanti piccoli centri supportati proprio dalle aziende che non hanno avuto l’esigenza di confrontarsi col sistema sanitario e accademico per sopravvivere e creare un centro adeguato alla complessa cura del paziente emofilico o con alterazioni dell’emostasi.
Così si blocca la crescita nell’ambito dell’emostasi in Italia e non solo.
È compito dei rappresentanti dei pazienti nelle altre regioni, far sentire la loro voce e pretendere un buon livello di cura.
In realtà con l’arrivo di nuovi farmaci più moderni e complicati da gestire, è fondamentale pensare ad una organizzazione diversa, come già riportato da EAHAD e EHC.
I centri, a seconda della loro capacità e infrastrutture, devono caratterizzarsi come Hub o Spoke. I centri Hub devono avere le capacità di soddisfare tutte le esigenze sopra citate, mentre i centri Spoke dovranno gestire un numero minore di pazienti e interagire in rete con i centri Hub per una gestione più funzionale ed efficace del paziente”.
Dal suo punto di vista come mai è così complicato comprendere l’importanza della multidisciplinarietà?
I centri per la cura dell’emofilia e gli ematologi sono pronti ad affrontare questo nuovo concetto per la cura dei pazienti?
“AICE è un’organizzazione nazionale e dovrebbe avere l’obbligo morale di fare questa verifica, di fare una programmazione interna, una mappatura con un controllo, un accreditamento vero, che preveda che un gruppo di esperti vada nei centri, valuti e certifichi in modo indipendente.
Una mappatura di questo genere consentirebbe di capire quali centri possano gestire solo le emergenze e quali una cura completa adatta alle condizioni cliniche del paziente, perché stiamo utilizzando farmaci complicati che possono avere effetti collaterali.
Quindi, al giorno d’oggi per occuparsi di questi pazienti, i medici devono essere formati adeguatamente, possibilmente con un background accademico e con conoscenze internazionali.
Sarebbe necessario utilizzare anche i giornali per far capire che l’emofilia è una patologia ancora più costosa se gestita da personale non adeguato e con risorse non adatte”.
Come mai si trovano tante difficoltà a parlare di questo, del paziente da valutare nella sua interezza come persona e non più solo dallo specialista ematologo?
È complesso anche organizzare convegni nell’ottica di questa visione più ampia, perché molti medici sottovalutano questi aspetti e poi non si trovano i fondi perché nessun’azienda sostiene i costi di un convegno in cui l’emofilia viene messa a margine.
Come fare per fare comprendere questo concetto?
“Purtroppo in Italia vi sono pochi Centri accademici che possano garantire la multidisciplinarietà e che siano organizzati in modo efficace per il paziente emofilico, in parte anche per mancanza di medici che possano curare anche altre patologie associate.
Oggi, con i farmaci nuovi che portano ad un livello di protezione maggiore, è difficile che un paziente emofilico sanguini spontaneamente e sono altre le cose che dobbiamo curare, come, dicevamo, la salute del fegato e i problemi cardiocircolatori.
Ci sono inoltre pazienti che, pur usando farmaci nuovi, hanno problemi di artropatia, con la possibile presenza di sinovite che può avere una componente infiammatoria e che necessita di uno studio più approfondito da parte di uno specialista di settore.
Il nostro gruppo a Milano è composto da diversi specialisti che curano le coagulopatie, ed avendo la fortuna di essere direttore della scuola di specialità di medicina interna ho avuto molti medici internisti che si sono interessati a questi diversi aspetti.
Purtroppo questo è il problema: la carenza in Italia di Centri con queste caratteristiche, cosa che richiede una profonda riflessione su come sia necessario riorganizzare i Centri Emofilia.
Nulla da togliere ai centri più piccoli che svolgono un’ottima attività assistendo i pazienti regolarmente, ma è ovvio che per le terapie più complesse, come la terapia genica, questi centri non possono soddisfare tutte le esigenze del paziente”.
Rivolgendoci alla presidente della Società internazionale di Emostasi e Trombosi allora parliamone in senso lato.
Nei Centri MEC non si occupano spesso gli ematologi – che curano leucemie e linfomi – per cui i Centri emofilia sono un po’ in pediatria o nei servizi trasfusionali.
Ma noi dobbiamo occuparci di emostasi e trombosi e in questo senso non esiste a livello di specializzazione o a livello universitario un insegnamento che si occupi della coagulazione.
È possibile avere un collegamento tra Università e Servizi ospedalieri?
“Questo è il punto.
Io e, prima di me, anche il Prof. Mannucci, come accademici, abbiamo sempre cercato di non limitare la nostra attività al solo centro emofilia, ma di occuparci di emostasi e trombosi anche a supporto di nostri colleghi che lavorano in diversi ambiti, ampliando lo studio dell’emostasi a tutta la medicina interna.
Nel campo dell’emofilia, per esempio, dobbiamo tenere in considerazione che alcuni farmaci nuovi possono creare problemi di trombosi che possono diventare molto seri se nel centro non vi è presente una preparazione specifica.
Quindi sono dell’idea che i centri che curano il paziente emofilico debbano essere in sedi dove sia disponibile una competenza generale sull’emostasi, sia per gli aspetti emorragici sia per quelli trombotici, ma anche di altro tipo, soprattutto nei casi d’urgenza.
Per questo anche a livello internazionale sto combattendo per avere centri che abbiano la capacità di curare l’emostasi a trecentosessanta gradi.
D’altronde non dimentichiamoci che il COVID è stato un esempio.
Il nostro Centro è stato in prima linea per cercare di capire la fisiopatologia dell’alterazione dell’emostasi in questa infezione e l’adozione della terapia anticoagulante precoce ha salvato la vita di molti pazienti”.
In apertura di questa domanda abbiamo detto che lei è stata nominata presidente della Società internazionale di Emostasi e Trombosi. In che cosa consiste questo ruolo e quali sono i suoi compiti?
“Durante l’ultimo congresso ISTH che si è tenuto a luglio a Londra sono stata nominata presidente, succedendo al Prof Jeff Weitz.
È un vero onore per me prendere la direzione della Società e rappresentare l’Italia.
Sarà mia premura portare la Società ad un’organizzazione più moderna, adattata alle esigenze di oggi e promuovendo le iniziative di giovani scienziati.
Credo che quest’ultimi debbano essere maggiormente coinvolti e ascoltati per la costruzione del futuro.
Ovviamente spero di collaborare con AICE e SISET per portare avanti anche le esigenze italiane”.
L’AICE ha potere e può intervenire a livello istituzionale?
“L’Associazione Italiana dei Centri Emofilia dovrebbe fare una mappatura dei Centri Emofilia d’Italia, e monitorarne le reali capacità in termini di personale e strumenti.
Noi a Milano siamo consultati da tutta Italia, ma non possiamo continuare a prenderci carico di un volume così grosso di pazienti. Dobbiamo valutare in ogni regione qual è la condizione dei pazienti, qual è la condizione di cura, la diagnosi, quanti centri sono veramente necessari, quanti centri Hub, quanti Spoke, come sono organizzati e che tipo di risorse ci devono essere. AICE può sicuramente lavorare su questo aspetto che ritengo essere il futuro”.
A suo parere i pazienti (esperti e non) sono davvero informati sui farmaci a disposizione? Come possiamo renderli davvero partecipi della scelta?
“Il paziente ha il diritto di conoscere lo stato dell’arte, i pro e i contro, poi può decidere con il suo medico. Orgogliosamente dico che periodicamente – al momento ogni tre/quattro mesi – informiamo i nostri pazienti sullo stato dell’arte dei farmaci presenti sul mercato, come ho fatto anche con la terapia genica, in questo modo diamo loro la possibilità di informarsi e crescere. Recentemente, è stata data l’autorizzazione all’utilizzo della terapia genica per l’emofilia A e le persone devono essere informate su che cosa sono i vettori virale e cosa viene iniettato, qual è l’efficacia e quali sono gli eventuali effetti collaterali. È importante però che il paziente anche in questo caso sia consapevole e informato, deve essere messo nelle condizioni di prendere la decisione migliore, in libertà. Io dedico quasi un’ora a ogni paziente, racconto tutto quello che c’è da sapere e, dico qual è la situazione e insisto affinché rifletta prima di decidere insieme se cambiare la terapia in corso. È ovvio che la decisione rimane del medico, ma il paziente deve sapere molto bene quali sono gli effetti di ogni farmaco perché le opzioni sono molte e devono essere individualizzate.
Riflettiamo anche su come deve essere il modello futuro delle associazioni. Quando ero consulente medico dell’EHC (European Haemophilia Consortium) raramente vedevo rappresentanti italiani giovani, o magari c’erano e non parlavano nemmeno inglese, questo è un problema. Servono associazioni che riportino le vere esigenze dei pazienti, rappresentate da persone informate e con una grande capacità comunicativa e che si sappiano interfacciare con il mondo europeo e internazionale. Non sarebbe meglio se ogni persona, ogni paziente fosse responsabile della realizzazione di un modello di assistenza più mirata? Ma come costruire questo modello? Su questo c’è da lavorare. Il ruolo delle associazioni dei pazienti è fondamentale e ricordiamo sempre che il paziente deve essere il centro di tutto quello di cui discutiamo”.
Non potevamo non rivolgerle la domanda sui farmaci e sull’attualità della cura.
“Per fare breve una storia lunga c’è da dire che stiamo sicuramente vivendo un momento meraviglioso dal punto di vista dell’evoluzione della tecnologia, non solo per l’emofilia, ma in tutta la medicina perché sono disponibili farmaci monoclonali, gli anticorpi B specifici, che nell’oncoematologia hanno cambiato tantissimo la vita dei pazienti. Noi, in emofilia, siamo passati dalla somministrazione della terapia sostitutiva 2/3 volte alla settimana con prodotti standard, alla somministrazione di terapia sostitutiva endovenosa con prodotti a lunga emivita, oppure a terapia non sostitutiva. Per quanto riguarda la terapia sostitutiva che in realtà è ancora a livello endovenoso, abbiamo i prodotti a lunga emivita che sicuramente hanno portato a una grande rivoluzione per la cura dell’emofilia B: da 2 volte alla settimana, siamo passati a un’infusione una volta ogni 10/14 giorni, per qualcuno addirittura ogni 20 giorni. Per quanto riguarda l’emofilia A il risultato con i prodotti a lunga emivita non è ancora così soddisfacente, perché da tre infusioni alla settimana siamo arrivati a 1 e mezza/2 per poter avere protezione maggiore (livello minimo di 3-5%), soprattutto a livello articolare. Quindi quello che dobbiamo fare è stratificare i pazienti, capire le loro esigenze, la loro necessità di muoversi e che livello di FVIII/FIX minimo vogliamo raggiungere, perché non è più accettabile avere un livello dell’1%, del 2%, ma del 5%, del 7% o qualcosa di più. Però dobbiamo vedere se questo è sostenibile, e come. Per fortuna in Italia stiamo usando tutti i prodotti disponibili, quindi è possibile valutare quelli a lunga emivita confrontandoli tra loro e con la terapia standard e una volta visti i risultati decidere le strategie da applicare. Per quanto riguarda la terapia non sostitutiva, il primo e al momento unico in commercio è il monoclonale umanizzato bispecifico, chiamato Emicizumab, che viene somministrato sottocute e come sapete non è FVIII, ma attiva il FX legando il FIXa e il FX con conseguente produzione di trombina. Quanto è attivo? Non essendo FVIII è difficile dirlo, si pensa sia equivalente a 10/15% di FVIII. È utile? Sicuramente sì. A molti pazienti, specie quelli con inibitore, questo farmaco ha cambiato la vita. Quelli senza inibitore che hanno avuto difficoltà con l’accesso venoso, hanno avuto un beneficio incredibile. Ben 70-80% dei pazienti non ha manifestato sintomi di sanguinamento con questa terapia. C’è comunque una percentuale di pazienti, seppur bassa, che però con questo tipo di terapia non raggiunge un ottimo risultato.
Ecco perché ritengo sia importante la personalizzazione della cura. Stiamo cercando di capire perché la risposta è inferiore in alcuni pazienti con pregressa artropatia. Capire il motivo per cui ciò avviene è fondamentale ed è per questo che stiamo conducendo sui nostri pazienti analisi più approfondite per arrivare ad una terapia individualizzata, perché non è detto che un farmaco vada bene a tutti. Ma sul fatto che la terapia sottocutanea abbia cambiato la vita dei pazienti, su questo non c’è nessun dubbio.
Rimane da valutare la sicurezza di questi prodotti, quando sono in combinazione con altri, specialmente nei pazienti con inibitore. Visto che è dimostrato che non si può utilizzare il FEIBA congiuntamente alla terapia con Emicizumab, in caso di evento acuto è necessario usare il FVII attivato.
Tuttavia, è fondamentale monitorarne l’utilizzo in quanto il FVII attivato porta a un’attivazione della coagulazione molto importante. Per cui chi lo utilizza deve sapere quando, come, e per quanto tempo farlo; è quello di cui parlavamo prima, ci vuole una corretta formazione, sia del medico sia del paziente.
Per quanto riguarda la terapia genica, che come detto è stata autorizzata da EMA per l’emofilia A e arriverà anche per emofilia B (in Italia penso ci vorranno ancora 1-2 anni), bisognerà valutare bene quali siano i pazienti candidati che ne potranno beneficiare, anche considerando l’elevato costo.
Allo stato delle cose, penso che non sarà elevatissimo il numero di pazienti che decideranno di fare la terapia genica, ma anche questo sarà importante capirlo discutendo coi pazienti. Sappiamo che per l’emofilia B, la risposta al farmaco in termini di livello di FIX dura per 8/10 anni o qualcosa di più, come dimostrato dal primo clinical trial eseguito in Inghilterra; mentre per l’emofilia A abbiamo risultati che arrivano a 5/6 anni con un livello di FVIII che rimane su 7/8/10%.
Quanto dura l’effetto della terapia genica, non lo sappiamo, quanto diminuisce e in quanto tempo, non lo sappiamo. Sappiamo che i livelli del fattore rimangono costanti nel caso dell’emofilia B, mentre per l’emofilia A ci sono varie fasi: all’inizio si ha buona espressione, dopo un anno un calo importante e poi un abbassamento più lento. Ci sono alcuni dati relativi alla sicurezza del fegato a breve e lungo termine: una percentuale di pazienti ha un incremento dei livelli di enzimi epatici che richiede attenta valutazione da parte dell’epatologo per evitare di perdere l’espressione di FVIII o di FIX a livello epatico. È importante che il paziente sia monitorato strettamente, come ho già detto, perché è molto importante dimostrare la sicurezza a lungo termine e monitorare che non ci siano problemi di insorgenze di tumore: per ora i casi riportati non confermano un’associazione con la terapia genica.
In ogni caso le associazioni WFH, EAHAD e EHC stanno cercando di monitorare da molto vicino la sicurezza di questi farmaci. È fondamentale avere un registro nazionale che raccolga attentamente i dati relativi a tutti gli eventi avversi; ricordiamoci che il numero dei pazienti arruolati negli studi clinici non è sufficiente alla valutazione a lungo termine degli effetti collaterali e bisogna invece continuare a monitorare questi effetti anche dopo l’autorizzazione all’utilizzo del farmaco. Per quel che mi riguarda cercherò di tenere informati i pazienti sullo stato dell’arte”.
Non rimane a questo punto la domanda sulla terapia genica.
“Personalmente ho studiato molto la terapia genica, come scelta personale. Ho avuto un paziente che vi si è sottoposto e ora sta benissimo, gli ha cambiato la vita. È stato lui, che una volta informatosi, ha fortemente voluto partecipare al clinical trial per cui mi sono attivata con entusiasmo affinché il nostro centro potesse fornirgli questa opportunità. Ma è fondamentale che tutti i farmaci siano disponibili per tutti, poi sarà il paziente stesso a decidere insieme al medico la terapia a lui più congeniale.
Nonostante il mio entusiasmo, bisogna essere consapevoli che questa non è la cura definitiva della malattia per il resto della vita, almeno allo stato attuale delle cose. Sappiamo che dopo un anno l’espressione del fattore si riduce per rimanere poi costante nei seguenti 5-6 anni. Ora, ricordiamoci che il 99,7% di questo prodotto può non integrarsi nel genoma umano, quindi, quando il fegato si replica, si riduce; solo una piccola percentuale viene integrata, ma non si sa per quanto tempo questa esprimerà il fattore. Quindi non avendo questa informazione non posso dire con certezza cosa farei io se fossi un paziente, posso solo informare nel miglior modo possibile i miei pazienti perché facciano scelte consapevoli”.
Fino ad oggi è stata affrontata la terapia genica nei pazienti con inibitore? Ritiene sia possibile applicarla?
“Si, ci sono due studi clinici aperti per i pazienti che hanno o hanno avuto inibitore nel passato. Il nostro centro fa parte dei centri attivi per questo studio e i pazienti interessati possono rivolgersi a noi”.
Ritorniamo un attimo indietro a quando lei ha affermato l’importanza del fatto che un paziente emofilico riesca a tenere controllata l’emorragia, facendo quel tipo di farmaco, l’Emicizumab, non gli risolve il problema di carenza di FVIII, quello resta. Durante un convegno la Prof.ssa Follenzi presentò uno studio sul ruolo fondamentale per l’organismo del FVIII, non solamente per il paziente emofilico, ma anche della persona non affetta da questa patologia.
Quindi qui la domanda è questa: “è importante comunque tenere monitorato il FVIII o no?
“Ci sono due problemi; il primo è non avendo FVIII in circolo, è necessario capire se il FVIII oltre che nell’emostasi possa avere altri ruoli, nella costruzione dello scheletro oppure in altri meccanismi fisiopatologici ancora sconosciuti e oggetto di studio. Tantissime ipotesi sono state fatte, ma ancora non ho visto dei dati che possano dimostrare che l’assenza del FVIII causi altri problemi.
C’è un secondo problema importantissimo secondo me, che riguarda i pazienti che hanno avuto immunotolleranza nel passato e hanno eradicato l’inibitore.
In pochi casi, quando i pazienti vengono trattati con Emicizumab, senza alcuna somministrazione di FVIII, sembrerebbe che dopo un po’ l’organismo perda la memoria e la tolleranza acquisita.
La comunità scientifica internazionale sta lavorando per cercare di capire questo problema”.
Questa domanda finale è stata posta da Marzia Magagnoli, presidente dell’Associazione Emofilici di Ferrara affetta da von Willebrand e presente al nostro incontro. Si è così instaurato una sorta di colloquio tra lei e la prof. Peyvandi.
Abbiamo parlato di emofilia in senso di emofilia A e B e coloro che sono affetti da von Willebrand?
“Ultimamente di von Willebrand se ne parla di più, ma prima veramente era quella sconosciuta tra le patologie e tra le MEC, ora chiedo invece come si potrebbero intercettare le persone come me, perchè per esempio io ho avuto la diagnosi a vent’anni e ci sono arrivata per caso.
È difficile che un medico di base ad una paziente che sanguina un po’ di più la indirizzi dall’ematologo, tutt’al più la manda dal ginecologo.
Io da zero a vent’anni ho rischiato di morire non so quante volte, alla fine hanno detto forse c’è qualcosa di più e ho conosciuto anche persone nella mia associazione che hanno avuto la diagnosi a quarant’anni, ma prima di arrivare ad avere una vita scaduta, possiamo fare qualcosa per intercettare queste persone?
E tornerei anche sul discorso di formazione e informazione di cui si è parlato già a proposito anche dei pazienti emofilici”.
“Su questo abbiamo lavorato moltissimo a livello internazionale, si chiamano “Awareness”, conoscenza della situazione e ci sono anche strumenti che abbiamo sviluppato come le “chat”, oppure sistemi di misurazione detti “score”, con i quali cerchiamo di capire la probabilità che una persona possa avere un difetto genetico che causa malattie di sanguinamento. Come hai sentito in precedenza, molti centri hanno problemi di multidisciplinarietà mentre in realtà dovrebbero lavorare in collaborazione con le unità di Medicina Generale, Medicina Interna, Ginecologia, e in generale con tutti gli specialisti che entrano in contatto con donne con problema di sanguinamento mensile o durante la gravidanza.
A livello internazionale è stato fatto moltissimo, e molti Centri si adoperano per rispondere a queste esigenze, ma sarebbe necessario un piano nazionale.
Per esempio, un paziente con una carenza di FXIII potrebbe essere una donna il cui solo sintomo sono aborti spontanei.
Ho visto casi in cui è stata fatta la diagnosi tardiva di carenza di FXIII in donne che avevano avuto numerosissimi aborti, una bassissima qualità di vita e depressione, ma che non avevano mai effettuato test di coagulazione in laboratori super specialistici, una situazione incredibile. Quindi questa si chiama educazione! Bisogna far crescere gli studenti di medicina, i medici giovani e cercar di far lavorare tutti su questo, anche i pazienti”.
La parola magica quindi sarebbe: “raccontare” e credo che vada fatto non solo tra la nostra comunità, ma anche all’esterno, è questo secondo me il ruolo dell’associazione.
Provare ad andare all’esterno, con una nuova mentalità. Io lo chiamo “pensiero laterale”, proviamo a coinvolgere e se coinvolgiamo gli altri con piccoli pezzi, piccole cose, probabilmente si sentono coinvolti un po’ tutti e probabilmente questo fa sì che si sentano coinvolti anche i giovani, attraverso i social, un sito, una pagina, i POV (point of view), potrebbe essere un metodo.
“Sono assolutamente d’accordo, bisognerebbe trovare metodi più innovativi. A proposito d’innovazione, comunico che stiamo procedendo alla realizzazione di strumenti per la telemedicina. I risultai ad oggi sono eccezionali. Siamo arrivati a raccogliere migliaia di dati derivanti da ecografie articolari di pazienti emofilici, anche durante il COVID. Abbiamo acquisito le immagini delle articolazioni, e le abbiamo condivise con informatici dell’Università degli Studi di Milano che hanno tradotto le immagini in linguaggio informatico. Siamo ora partiti con la seconda fase del progetto, durante la quale alcuni nostri pazienti utilizzeranno questi sistemi informatici applicati a ecografi portatili, attraverso i quali potranno monitorare eventuali sanguinamenti articolari e inviarci le immagini per l’analisi. Speriamo di poter presto standardizzare il metodo, cosa che non sarà facile, in previsione di sviluppare un’applicazione per il cellulare.
Stiamo procedendo articolazione per articolazione; abbiamo iniziato dal ginocchio e passeremo poi alla caviglia che è un punto dolente per molti pazienti.
Quando ho visto questa cosa, mi sono commossa perché, dopo molti anni che ci stiamo lavorando, siamo riusciti a fare il primo passo e la cosa bella è che questo studio è stato finanziato all’interno di un progetto dell’Università di Milano dal Piano Nazionale Ripresa Resilienza (PNRR)”.