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Ciao Giovanni…

emoexGiovanni Nicoletti è andato avanti ma il suo esempio certamente resterà nel ricordo e nel cuore di tutti coloro che lo hanno conosciuto ed hanno anche avuto la fortuna di lavorare assieme a lui per tanti anni come il sottoscritto.
Ci siamo conosciuti la prima volta nel 1978 in occasione di un convegno e subito si era posto all’attenzione per quel suo modo di intervenire, pacato ma allo stesso tempo deciso.
Ci sarebbero stati tanti modi per ricordarlo ma ho pensato di proporre il testo di un incontro avuto con lui un paio di anni fa legato al mio progetto di raccontare l’emofilia in un libro, anche attraverso le testinonianze delle persone che con il loro impegno ne hanno fatto la storia.
Questo è il racconto di una parte della sua vita che si è svolto a Napoli, la sua città, “condito” da una squisita pizza margherita come soltanto in quella città sanno fare.


“Sono nato nel 1946, prodotto post bellico dopo la liberazione di mio padre – mi aveva dichiarato con il suo accento napoletanissimo, parlando piano e con tante pause.
Ho vissuto in una famiglia dove l’emofilia era già nota e infatti mio nonno era un emofilico che era vissuto fino a quasi 50 anni.
Ragazzino abbastanza rompiscatole (vi garantisco che negli anni per chi, come me, ha avuto la fortuna di frequentarlo, non era cambiato – N.d.A,) e vivace, se sono qui oggi è perché le mie prime cure sono state fatte con dei ferri roventi, tanto è vero che sul mio corpo ci sono delle cicatrici che dimostrano tagli o altre rotture che io mi provocavo perché andavo in giro indifferente alla mia malattia, cioè senza tenere conto dei pericoli.
Sarà un tema ricorrente questo del rifiuto della condizione, da parte dei ragazzi che hanno sofferto quando non esisteva farmaco come ai giorni nostri ed anche la mancanza assoluta di cure se non il sangue intero ed i rimedi palliativi come quello di cui Giovanni sta per raccontarci.
All’inizio ho fatto anch’io tutte quelle cure che si fanno con la cosiddetta vitamina Q, che era la medicina che si doveva usare per le emorragie, tanto è vero che i miei genitori mi facevano mangiare chili e chili di noccioline americane, che contengono questa vitamina.
Oppure utilizzavo, soprattutto per le emorragie dei denti, garze di cotone di color giallo dove c’era una sostanza che doveva servire a fermare le emorragie ma secondo me non servivano a niente.
Quando mi si gonfiavano le articolazioni per i soliti traumi spontanei o indotti, passavo giornate a letto, alcune volte mettendo del ghiaccio che già all’epoca dove io abitavo non era facilmente reperibile, che doveva servire a raffreddare l’articolazione ma vi posso assicurare che quelli che si raffreddavano erano i miei occhi che cacciavano lacrime in continuazione perché i dolori che provoca un’emorragia in un’articolazione specialmente di un bambino, sono veramente forti.
Ma la cosa non mi ha mai fermato”.
Fin qui è rimasto con la forchetta a mezz’aria ed il pezzo di pizza in attesa di essere mangiato; poi continua:
“Arriviamo agli anni ’60. Avevo tra i 10/14 anni quando si scoprì finalmente la possibilità di riuscire a curare l’emofilia, si fa per dire, a Napoli presso il così detto vecchio Policlinico Istituto di Semiotica Medica.
Curare gli emofilici era una parola grossa ma almeno si potevano avere trasfusioni di sangue.
L’emofilico in caso di emorragia grave non faceva altro che curarsi con le sacche di sangue e questo aiutava un po’ la risoluzione dell’emorragia stessa.
Ma anche questo era solo un tentativo.
Certamente però il ricordo di quel periodo è legato soprattutto ai frequenti ricoveri ospedalieri.
Uno su tutti per quella che avrebbe dovuto essere una semplice estrazione dentaria. Sono stato ricoverato un mese, con in vena attaccata la sacca che mi dava il sangue nelle vene e il sangue usciva dal buco causato dalla ferita dell’estrazione, per cui anche qui evidentemente su in cielo non mi volevano proprio.
Sta di fatto che ancora una volta mi sono salvato nel senso che l’emorragia del dente si era piano piano ridotta e poi fermata.
C’era poi il problema dei rapporti con gli altri ragazzi, o con le persone le quali, conoscendomi, mi trattavano quasi come un oggetto prezioso, perché non si toccava il bambino, non era possibile andare a fare una passeggiata perché poteva questo causare un’emorragia”.
Si ferma di nuovo e non contano le mie raccomandazioni che la pizza che sta mangiando si raffreddi.
Quasi socchiudendo gli occhi mi racconta come gli anni siano passati sempre con lo stesso sistema di cura, cioè la trasfusione fatta ovviamente solo con ricovero ospedaliero e solo in caso di emorragie che potevano portare alla morte”.

Il suo tono è sempre pacato, calmo e sereno come se raccontasse la vicenda di un’altra persona.
Con la stessa leggerezza e serenità quando parla dei momenti in cui ha capito che stava rischiando la vita.

“Ho avuto anche delle emorragie gastriche e mi sono salvato perché mi hanno fatto una trasfusione in vivo. Io steso sul lettino, il medico steso su un altro lettino ed un altro infermiere o medico, con un aggeggio che non era stato ancora messo in commercio ed era fatto di gomma, tirava il sangue dalla vena del medico che si era offerto volontario e girando una chiavetta me la immetteva nella vena.
Dopo qualche anno scopriamo, essendoci trasferiti a Napoli, che esistevano dei prodotti che venivano chiamati crio-precipitati.
E qui siamo già alla fine degli anni ’60, inizio anni ’70.
Ero già un giovanotto e iniziavo ad interessarmi dell’associazione emofilici di cui mio fratello medico, anch’esso emofilico, era presidente.
In quell’occasione ho conosciuto il primo aggregato di pazienti emofilici che veniva seguito presso l’ospedale di Napoli che si chiamava il Vecchio Pellegrini; un ospedale fatiscente dove però c’era un medico molto bravo e il suo assistente il prof. De Biasi che avevano iniziato a sperimentare la creazione di questi crioprecipitati perché si erano accorti che lasciando le sacche di plasma in un freezer, si dividevano in due parti: la parte bianca che sarebbe il plasma e la parte rossa che sarebbero i globuli rossi.
Utilizzavano la parte bianca, cioè il plasma, per poter far precipitare cioè far cadere mettendo dei filtri i fattori della coagulazione presente nel plasma.
Ovviamente sto parlando di tutti i fattori della coagulazione non solo il fattore VIII che a me poteva essere utile”.

La pizza di Giovanni, o ciò che ne resta, si sta irrimediabilmente raffreddando e così gli ordino di fermarsi e di terminarla.
Poi, il caffè, che non può mancare, ci aveva fatto tornare indietro nel tempo ancora una volta e lui continua:
“Premetto che quando sono nato la mia famiglia era stata, per il periodo della seconda guerra mondiale, tra- sferita in un borgo rurale chiamato Borgo Appio vicino al Comune di Grazzanise dove c’era un aeroporto mili- tare.
Lì che ho vissuto le prime esperienze di vita.
Ero arrivato all’uso del crioprecipitato, un bel passo avanti anche se in effetti eravamo costretti, per poter utilizzare questo prodotto, ad accedere in ospedale, quindi immaginate le sofferenze che potevano crearsi nel momento in cui, con un emartro che ti bloccava la coagulazione, tu dovevi andare in ospedale per 2/3 volte al giorno per più giorni per poterlo utilizzare nel momento in cui ti dicevano che c’era.
Però era già un passetto in avanti”.
Facciamo così, insieme a lui, un salto in avanti nel tempo, quasi alla fine degli anni ’70, quando, per lavoro si trasferisce a Padova dove continua a curarsi con il crioprecipitato e con sistemi che non utilizzavano i fattori della coagulazione.
“Conobbi all’epoca il Centro del prof. Traldi di Castelfranco Veneto – continua – dove si faceva una vita sempre nell’ambito ospedaliero perché non c’era la possibilità ancora di poter autogestirsi nella terapia.
Questo accadde però con l’immissione in commercio degli emoderivati che, come tutti ormai sanno, erano prodotti di origine industriale che forniscono all’organismo il fattore carente, fattore VIII per l’emofilia A e fattore IX per l’emofilia B, quindi già qui la cura per l’emofilia incominciava ad avere una certa spinta innovativa.
Siamo andati avanti per anni con questo sistema perché nel frattempo le Associazioni hanno incominciato a lavorare in maniera pesante per poter ottenere dal Servizio Sanitario Pubblico la disponibilità presso la propria abitazione per i casi di urgenza e d’emergenza di questi fattori accompagnata da questa richiesta dalla possibilità anche di poterlo fare autonomamente o il paziente stesso un suo familiare che anche questo detto auto-infusione rappresenta un altro tassello della storia dell’emofilia perché per la legge italiana è vietato l’atto di disposizione sul proprio corpo cioè nessuno di noi può intervenire sul proprio corpo ma questa possibilità viene data solo al personale medico nei tempi e nei luoghi adatti a salvare la vita all’individuo”.

Giovanni, giunto agli anni ’80 si era fermato improvvisamente con lo sguardo lontano perché questo era un ricordo che bruciava ancora, pur non essendolo, come un dolore fisico, quello delle infezioni e la caduta in un baratro di incertezza dopo la scoperta del farmaco salvavita.
Guardando sconsolato i resti della sua pizza aveva ripreso, con la comparsa del virus HIV.
“Non posso continuare a cuor leggero senza ricordare gli oltre 800 emofilici che hanno perso la vita e gli altri, i sopravvissuti, che continuano a vivere con questo virus nell’organismo che oggi si riesce solo un poco a curare ed a mantenere inattivo, ma comunque sotto una campana di vetro e sempre con la paura che si possa attivare nuovamente”.
Per il rispetto del suo stato d’animo, mi fermai qui, ma avevo intenzione di tornare a parlare con lui più avanti nel mio racconto.
Avremmo scoperto insieme e fatto conoscere agli emofilici più giovani, altri particolari, soprattutto il suo impegno nel volontariato anche ai vertici di Fedemo, del quale parleranno altri.
Io invece voglio concludere dicendo che ciò che è straordinario nelle persone che scelgono il volonariato sono l’impgno e la dedizione.
Lui ne è stato un vero esempio, rivolto agli altri.

Brunello Mazzoli


È per me, oggi, difficile parlarvene. I ricordi e i pensieri mi si affollano nella mente e non riesco a metterli in ordine.

Ho conosciuto Nicoletti quando mi affacciai al mondo dell’emofilia, giovane medico appena assunta come assistente medico della Sezione di Ematologia dell’Ospedale dei Pellegrini di Napoli cui era aggregato il Centro Emofilia.
Era il 1979 e avevo solo 26 anni.
Sapevo poco di questa malattia, giusto quel tanto che si poteva leggere nei sacri testi della medicina e Nicoletti era già Presidente dell’ARCE, l’Associazione degli Emofilici della Campania che insieme a uno sparuto gruppo di altri pazienti aveva fondato nel 1976.
Da quel momento è stato per me un preciso punto di riferimento, colui che più mi ha insegnato che cos’è l’emofilia, dal punto di vista del paziente, ed è a Lui che mi sono sempre rivolta quando avevo necessità di capire meglio o di confrontarmi su diversi aspetti di questo mondo, il mondo dell’emofilia, così variegato, stimolante ma, comunque, difficile da comprendere nelle sue varie sfaccettature e lui le conosceva tutte, sapeva affrontarle e sapeva trovare le soluzioni, sempre le più opportune, grazie alla Sua umanità e saggezza.
Di ciò ne è d’altronde testimonianza l’essere stato il primo Presidente di FedEmo che nasceva proprio in terra campana, a Sorrento, durante il IX Convegno Triennale sui Problemi Clinici e Sociali dell’Emofilia.
Tanti i progetti e le iniziative che Nicoletti fortissimamente volle che FedEmo portasse avanti durante la Sua Presidenza, ma di ciò non è mio compito parlarvi.

Ciò che invece mi preme è ricordarvi il Suo impegno a favore dei giovani. Nicoletti è stato un maestro anche in ciò; ha saputo comprendere l’importanza di ricordare e insegnare ai giovani emofilici l’importanza di impegnarsi nel mondo associativo, il valore della della loro vicinanza ai Centri, l’importanza di non dimenticare di essere emofilici, nonostante le tante terapie innovative dell’attuale scenario terapeutico che, migliorando la qualità della vita dei pazienti potrebbe riflettersi in un allontanamento dai Centri.
Questo, forse, il più attuale dei Suoi insegnamenti rivolto alle persone con emofilia ma anche a noi medici che, mi auguro, vorremo cogliere nella sua interezza.
Aveva fiducia in noi medici e la maniera migliore per ricordarlo è aiutare i nostri pazienti a continuare a esserci vicini.
Avrei tanto da aggiungere e da ricordare ma preferisco che sia Nicoletti stesso a significarvelo con le parole che mi scrisse in una lettera inviatami qualche anno fa: “In questo ormai mezzo secolo di attività per promuovere la qualità di vita delle persone con emofilia, tre sono stati gli aspetti per noi prioritari e per i quali ci siamo battuti, ci battiamo e continueremo a batterci: sostenere la ricerca scientifica; collaborare in stretta sinergia con i Centri Emofilia, affinché possano erogare le migliori cure e un’assistenza specializzata, ricordando che i Centri stessi sono stati istituiti in tutta Italia, su impulso delle associazioni dei pazienti come la nostra; portare le nostre istanze all’attenzione delle istituzioni per una presa in carico ottimale della patologia.
Il fulcro della nostra missione, come pazienti e persone con emofilia è promuovere l’informazione e la formazione delle persone con emofilia e dei loro familiari, perché non siano lasciati soli nell’affrontare le sfide quotidiane. Il nostro obiettivo come Associazione è promuovere una sempre maggiore conoscenza dell’emofilia e di tutti quegli aspetti che sono cruciali per gestirla al meglio come, ad esempio, quello della profilassi e dell’auto-infusione, rispondendo a dubbi, paure, preoccupazioni, fornendo consigli ed assistenza, con il supporto dei medici dei Centri”.

Credo sia questo un suo testamento che vorrei tanto noi medici riuscissimo a rispettare e concretizzare.
Arrivederci, Dottor Nicoletti, grazie per tutto quello che ha fatto per noi.
La ricorderò, la ricorderemo con affetto.

Angiola Rocino
Presidente AICE


“Ciao Giovannino come va?”
e tu… “Come nu vicchiariello?”.
Questo era il nostro modo di salutarci ogni qualvolta ci sentivamo o ci incontravamo.

La tua voce la sento ancora, soprattutto quando la mia testa si riposa
per un attimo a rivivere tutto quello che è successo.

A distanza di qualche settimana, ancora parlano di te, dottori, infermieri, presidenti di associazioni di emofiliaci ed emofilici di tutta Italia… Uguale a quando eri qui.
Si parlava sempre di te, perché eri troppo interessante ed interessanti erano le cose che dicevi, le cose che pensavi e soprattutto il modo in cui le sapevi porre.

Anche Noi abbiamo sentito la necessità di dare una piccola testimonianza di quello che Tu hai rappresentato.

Siamo sempre stati consapevoli di essere stati i più fortunati di tutti, in quanto abbiamo condiviso con te oltre quarant’anni di vita associativa e non.
Anni in cui abbiamo imparato valori dei quali ne hai fatto la tua ragione di vita:
solidarietà, umanità e onestà.
Quest’ultima ti ha permesso di avere solo Amici “Giusti”.

Eccellevi in tutto quello che facevi: eri amato dalla tua famiglia e adorato dalle tue nipotine, stimato e rispettato sul lavoro.
E poi le due tue creature: Fedemo e A.R.C.E. che per 12 anni ne hai ricoperto con onore la carica di Presidente di entrambe; per l’A.R.C.E. fino a qualche mese fa.

Vedevi sempre oltre e il voler coinvolgere i giovani e i propri genitori alla vita associativa con modalità diverse.
Ovviamente, è stata una delle tante tue grandi intuizioni.

Il tuo motto “Formare e informare” rende, il paziente emofilico libero.Cosa eri?…
Garbato, delicato, rispettoso, saggio, sapiente, amabile, cortese… Eri coraggio per chi aveva paura, speranza per chi l’aveva persa.
Eri un faro luminoso per tutti.

La Comunità Emofilica, oggi, è povera di un grande protagonista che ha fatto e scritto la sua storia lunga quarant’anni.
Conosco un solo modo per onorare la tua memoria: volere bene alle persone alle quali volevi bene e portare avanti le battaglie nelle quali credevi.
A tal proposito, ritengo che sia arrivato il momento in cui la comunità emofilica, Fedemo, Paracelso e tutte le Associazioni Regionali, uniscano le proprie forze pensando esclusivamente a perseguire le nobili finalità per le quali sono preposti.
Sai Giovannino, la cosa che mi consola in un momento così triste è che questo nostro distacco non è per sempre.

Gerardo


Gianni, ho avuto il piacere e l’onore di parlare spesso con te e sempre sei stato una fonte d’aiuto e vicinanza.
22 anni fa ti ho conosciuto, in un momento di grande difficoltà…mi hai aiutato con il tuo fare discreto ed educato.
Resterai sempre nel mio cuore, per me e tanti altri come me,
sei stato un grande Maestro di vita e te ne saremo sempre grati. Veglia sempre su di noi…

Pina Sabato Farace

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