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DALLA PALESTINA ALL’ITALIA… INTERVISTA ALLA DOTT.SSA GENTILINI DEL CENTRO NAZIONALE SANGUE

A seguito del precedente articolo di Jad vi proponiamo l’intervista alla dott.ssa Gentilini del Centro Nazionale Sangue dell’ISS.
E’ un quadro molto dettagliato nella descrizione del progetto di cooperazione internazionale con il popolo palestinese sulle problematiche legate alle persone con emofilia e talassemia.

Il popolo italiano, le persone, le organizzazioni, gli enti pubblici e privati hanno una lunga storia di aiuto in iniziative e progetti umanitari e di sviluppo, a lungo e a breve termine, non solo in Italia ma in tutto il mondo, dove mi sono trovato sei anni fa e sono tuttora coinvolto in un progetto specifico avviato dagli italiani e rivolto alla comunità dei pazienti ematologici in Palestina, progetto identificato e chiamato Haemo-Pal e che merita di essere evidenziato al pubblico in Italia attraverso EX.
Ho lavorato in ambito umanitario e di sviluppo per alcuni decenni con molte e per molte nazionalità e ora più che mai sono felice di collaborare con un team italiano che da sei anni lavora con impegno e dedizione a questo progetto (Haemo-Pal) perché venga realizzato e aiuti il popolo palestinese.
Un riconoscimento al team di Haemo-Pal, che con sforzo porta avanti un progetto vitale e necessario, rivolto alla comunità emofilica speciale ed emarginata in Palestina.
Molte persone, organizzazioni e regioni italiane hanno avviato il progetto di aiuto, finanziando e donando il fattore di coagulazione. Ma sono particolarmente grato ad una persona incontrata di recente durante una sua visita di lavoro in Palestina: la dottoressa Ilaria Gentilini, che ringrazio per il suo impegno e la sua professionalità nel trasformare questo progetto in una storia di successo.
Vorrei che Ilaria presentasse se stessa, il suo coinvolgimento nel progetto e lo mettesse in evidenza ai lettori di EX.
Ilaria vorrei darle ancora una volta il benvenuto in Palestina come collega e amica e vorrei che rispondesse alle seguenti domande per dare ai lettori un quadro chiaro di ciò che sta accadendo con questo progetto sull’emofilia in Palestina.

Sei entrata nel progetto in una fase avanzata, diciamo di implementazione; prima di presentare il progetto puoi dire qualcosa di te ai lettori?
“Certo, sono felice di conoscere i lettori di EX. Mi chiamo Ilaria Gentilini e lavoro per il Centro Nazionale Sangue (CNS) dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) a Roma. La mia formazione è in studi internazionali con particolare attenzione alla cooperazione internazionale, con un taglio antropologico. In passato ho contribuito a diversi progetti di sviluppo da un punto di vista più sociologico. La mia attenzione è fortemente operativa e concreta. Negli ultimi due anni ho vissuto tra Roma, dove vivono i miei due amati figli, e i Territori Palestinesi Occupati (TPO) dove, coordinando il progetto Haemo-Pal, ho sperimentato la gentilezza e l’accoglienza del popolo palestinese che, nonostante le difficoltà e i dolori dovuti all’occupazione israeliana, rimane tra i popoli più generosi e gentili che abbia mai incontrato. Nella mia formazione antropologica ciò che rimane davvero centrale e a cui continuo ad attingere, è il fattore umano, che rappresenta il semplice punto di partenza e il modo più ragionevole ed efficace per mettere davvero in moto qualsiasi tipo di cambiamento”.

Quali sono i ruoli e le responsabilità che state assumendo in questo progetto internazionale dal punto di vista professionale?
“In Haemo-Pal, faccio parte del coordinamento scientifico, insieme al dottor Fabio Candura. È un ruolo dalle molte sfide e soddisfazioni, in quanto richiede di coordinare e armonizzare l’implementazione del progetto, le cui numerose attività sono affidate a tanti diversi partner e interlocutori, da quelli istituzionali (Ministero della Salute palestinese) a quelli di base (Associazioni di pazienti), fornitori di servizi o di beni, ecc.
Mi trovo costantemente di fronte alla sfida della comunicazione interculturale, che richiede un’attenta riflessione e registri diversi a seconda dell’interlocutore. Mi piace la sfida che rappresenta, ti fa sentire più consapevole e rispettoso delle molte sfumature della diversità umana e socio-politica in cui siamo radicati”.

Puoi illustrare ai lettori come è nato il progetto, i suoi obiettivi, i beneficiari, le partnership coinvolte e i risultati che si stanno raggiungendo?
“Il progetto è iniziato qualche anno fa, nel 2018, grazie alla visione di un paziente emofilico, il compianto Dott. Calizzani, all’epoca in servizio presso il Centro Nazionale Sangue italiano.
Egli voleva non sprecare i medicinali plasmaderivati che eccedevano il fabbisogno nazionale italiano e ha quindi esplorato la possibilità di donarli in Palestina, dove è noto che, essendo un Paese chiuso a causa dell’occupazione, le malattie emorragiche congenite sono piuttosto comuni a causa dei numerosi matrimoni tra persone familiarmente vicine.
Insieme al dottor Fabio Candura si è messo in contatto il dottor Jad Tawill, responsabile della Società Palestinese per i Disturbi Emorragici (PSBD), che in seguito è diventato uno dei nostri partner attuatori di base. L’intero progetto è stato poi ampliato e pianificato con cura dal dottor Candura, che si è rivolto all’Agenzia Italiana per la Cooperazione Internazionale (AICS) per ottenere fondi. Il progetto è infatti interamente finanziato dall’AICS. L’obiettivo principale del progetto è quello di migliorare la qualità della vita dei pazienti affetti da malattie ematologiche rare come l’emofilia e altri disturbi emorragici congeniti, nonché la talassemia e altre emoglobinopatie, migliorando la gestione clinica di queste malattie in Palestina. La suddivisione del progetto prevede, come obiettivi specifici, i seguenti:
1. Formazione del personale medico e paramedicolocale.
2. Supporto tecnico e sviluppo delle capacità per l’implementazione di una cartella clinica elettronica (EMR), a supporto della gestione clinica di queste malattie, e per la creazione di un registro nazionale delle malattie ematologiche congenite.
3. Fornitura di concentrati di fattori della coagulazione derivanti da donazioni di plasma italiano.
4. Creazione della rete di cinque Centri ematologici nei territori e fornitura delle attrezzature per i laboratori e del software specifico per la risonanza magnetica nucleare.
5. Definizione di protocolli e percorsi diagnostico-terapeutici.
6. Responsabilizzazione del paziente.

In sostanza, il progetto prevede di aiutare la comunità dei pazienti a raggiungere standard di vita migliori attraverso una cura più avanzata e organizzata delle patologie coinvolte, fornendo strategie sostenibili. Noi doniamo i fattori di coagulazione, ma allo stesso tempo il personale medico locale viene formato per diagnosticare e trattare le malattie, somministrando le cure migliori con i medicinali plasmaderivati.
I nostri principali partner attuativi sono: a livello istituzionale il Ministero della Salute palestinese, mentre a livello comunitario, da parte italiana, siamo supportati dalla Fondazione EMO per l’emofilia e da SITE for Anemia per la talassemia, che si occupano dell’intero programma di formazione di medici di base, tecnici di laboratorio e specialisti nelle tre diverse fasi:
1- formazione locale in Palestina;
2- stage del personale medico e paramedico palestinese presso i centri ematologici di competenza in Italia;
3- corsi di apprendimento online su una piattaforma dedicata attraverso la metodologia del Problem Based Learning (apprendimento basato sui problemi come scenario di partenza per l’acquisizione di nuove conoscenze).
D’altra parte, nell’OPT abbiamo scelto come partner l’associazione di pazienti Palestinian Society for Bleeding Disorders (PSBD) e Avenir for the haemophilia and Thalassemia Patients Friends Society for thalassemia, a cui è affidato la responsabilizzazione dei pazienti, attraverso l’attuazione di campagne di sensibilizzazione e di supporto psicosociale ai malati e alle loro famiglie”.

Potresti fornirci un resoconto del punto in cui si trova questo progetto in questa fase di attuazione?
“Il progetto, nonostante sia stato significativamente ritardato dalla pandemia di Covid 19 prima e dalle sempre ingombranti pratiche burocratiche poi, è attualmente nel pieno del suo sviluppo. In altre parole, per quanto riguarda l’aspetto del potenziamento delle capacità, come accennato in precedenza la formazione è in pieno svolgimento, stiamo organizzando il secondo e ultimo gruppo di medici e paramedici palestinesi che parteciperanno allo stage presso i centri di competenza ematologica in Italia, questa volta situati a Roma, Firenze, Cantanzaro, Cagliari e Genova. Non vediamo l’ora di accogliere questa seconda delegazione. Dopo questa esperienza olisticamente coinvolgente sul campo, la formazione si avvierà verso la sua fase finale di consolidamento attraverso i corsi online, dove tutte le conoscenze e le esperienze costruite fino ad ora vengono sistematizzate e ampliate attraverso un approccio più approfondito basato su casi clinici. Per quanto riguarda il registro medico elettronico e il registro nazionale di patologia, sono in fase di realizzazione proprio in questi giorni.
Inoltre, la fornitura di fattori di coagulazione (prodotti medici derivati dal plasma) continua regolarmente. Alla fine di aprile dovrebbe arrivare in OPT la terza spedizione, “se Dio vuole”, come si dice da queste parti. Per quanto riguarda la fornitura di tutte le attrezzature di laboratorio necessarie all’allestimento dei centri ematologici in loco, sono in corso di elaborazione i bandi di gara.
Infine, ma non meno importante, le nostre associazioni di pazienti di fiducia stanno per lanciare le campagne di prevenzione e sensibilizzazione della malattia attraverso i territori e per organizzare il supporto psicosociale dei pazienti e delle loro famiglie.
Queste attività, a mio avviso, sono fondamentali nel processo di responsabilizzazione della comunità dei pazienti, poiché a loro volta contribuiscono alla sostenibilità del progetto a livello di base”.

Ilaria, questa non è la tua prima visita in questo Paese, hai girato molte regioni della Palestina, da Hebron, Betlemme nel sud, Gerusalemme, Al-Bireh, Ramallah a Jenin nel nord. Puoi far focalizzare bene ai lettori ciò che sta accadendo qui e in particolare quelli che sono i bisogni delle persone destinatarie del progetto?
“Ho visitato parzialmente il Paese, purtroppo sempre meno negli ultimi tempi a causa di alcuni seri problemi di sicurezza che rendono molto compromessa la mobilità negli OPT, che sono le stesse, se non maggiori, complicazioni che i palestinesi devono affrontare quotidianamente quando si spostano nel loro Paese a causa dell’occupazione israeliana, che negli ultimi tempi ha subito un’escalation di violenza che ha portato alla chiusura totale, all’isolamento forzato di molte aree, come ad esempio Jenin e Nablus, oggetto di continue incursioni e di spari aperti da parte delle forze armate israeliane 24 ore al giorno. Si può immaginare come questo possa avere un impatto negativo sulla vita dei pazienti e sul loro viaggio attraverso i territori per accedere alle strutture che possono fornire loro le cure e l’assistenza necessarie e che, a volte, potrebbero fare la differenza tra la loro sopravvivenza o la morte.
Il più delle volte, il loro viaggio potrebbe essere compromesso o indefinitamente ritardato a causa delle tensioni disumane e dei costanti pericoli che l’occupazione impone forzatamente ed arbitrariamente. È una situazione terribile di stress costante e brutale e di pericolo profondamente radicato nella vita quotidiana, che non fa altro che aggiungere dolore e frustrazione a persone che già lottano contro una fastidiosa malattia cronica”.

Quali sono alcuni degli ostacoli che state affrontando rispetto ai punti di forza positivi che volete condividere con i lettori?
“Come appena descritto, gli ostacoli più evidenti sono l’elevata instabilità politica dei territori e i numerosi pericoli insiti in una vita altrimenti quotidiana.
Tuttavia, la vita sotto occupazione ti mette di fronte alla nuda necessità di affrontare ogni giorno nel modo più propositivo e positivo, senza filtri ridondanti e fuorvianti. I palestinesi sono incredibilmente resistenti e non abbandonano la speranza che le cose possano cambiare e cambieranno, in scenari più umani, permettendo che i diritti umani fondamentali siano finalmente ascoltati e rispettati. Un altro ostacolo che ho dovuto affrontare è la lentezza con cui si muovono le amministrazioni pubbliche, principali partner di attuazione del progetto, causando inutili e sconcertanti ritardi. D’altra parte, proprio la proprietà pubblica di questo progetto dovrebbe garantire un impatto più profondo e a lungo termine, assicurando a tutti i nostri sforzi la giusta sostenibilità ed economicità. Infine, da un punto di vista molto personale, l’aspetto più positivo di questo progetto è la possibilità che offre di riumanizzare una certa parte del settore sanitario, dove la sfida principale è quella di minimizzare e armonizzare le diverse agende politiche che sottendono le azioni dei vari attori coinvolti. L’obiettivo è quindi quello di costruire un fronte connesso e coeso, che vada dai livelli istituzionali a quelli di base, che possa finalmente garantire un approccio più completo e stabile alla gestione pubblica di queste malattie, soprattutto in territori dove la stabilità socio- politica è chiaramente l’elefante nella stanza”.

Puoi rivolgere alcune osservazioni ai vari interlocutori di questo progetto e alle persone interessate a lavorare in Palestina?
“Alle varie parti interessate direi semplicemente: “restiamo umani”, per citare il compianto attivista italiano Vittorio Arrigoni e troviamo ogni possibile punto di contatto piuttosto che occasioni di divisione. I palestinesi dovrebbero davvero lavorare per consolidare un grande senso di unità nazionale da riconoscere nell’arena politica internazionale.
D’altra parte, la comunità internazionale, per compensare la sua palese mancanza di sostegno a livello mondiale per la Palestina occupata, ha inondato il Paese (sia Gaza che Cisgiordania) di aiuti umanitari, a volte ancora con approcci di sviluppo dall’alto verso il basso, che hanno pesantemente colpito ed eroso la stessa capacità di cambiamento dei palestinesi.
Alle persone interessate a lavorare negli OPT, mi sento di dire che dovrebbero venire a sperimentare l’incredibile gentilezza dei palestinesi, le loro ricche tradizioni culturali radicate nell’antichità e, in genere, le loro usanze più accoglienti e a immedesimarsi nella pura disumanità e brutalità a cui sono costretti a sottostare nella loro vita sotto occupazione”.

Grazie Ilaria per questo sforzo prospettico e umanitario, grazie a te e al popolo italiano per questo enorme lavoro e sempre in attesa di vedervi in Palestina.

Jad K. J. Tawil
Attivista palestinese americano e direttore della Palestine Society for Bleeding Disorders (PSBD)