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IL CONVEGNO DI RAVENNA SULLA DREPANOCITOSI

emoex

Dopo molti anni di silenzio, l’Associazione di Ravenna, finalmente ritorna ad organizzare un convegno come era avvenuto per la prima volta nel 1974.
Questo però non ci ha impedito di essere presenti dovunque attraverso il suo giornale ed i suoi rappresentanti.
è stato ribadito dal Segretario Esecutivo Mazzoli e dal dott. Antonino Mancino, nella presentazione, rivolti al numerosissimo pubblico di pazienti e di medici.
è stato ricordato, sempre nella presentazione, quali erano gli obiettivi che ci si prefiggeva in quel lontano 1974, quando nacque il giornale EX.
“Noi non accettiamo di essere emarginati e non accettiamo che altri lo siano.
Ma per ottenere questo dobbiamo dimostrare di essere in grado di inserirci come elementi attivi nella società, di dare almeno quanto chiediamo.
EX è sorto per trattare ogni numero una malattia sociale per vedere minutamente i problemi di tanti che stanno molto peggio di noi….”.
Era un proposito quando l’Associazione era sorta come “Amici della Fondazione dell’Emofilia”, che dopo due anni era divenuta (unico esempio ancora oggi in Italia) “Associazione Emofilici e Thalassemici”.
Parlare ed occuparci di quelle patologie quasi dimenticate o comunque che stavano iniziando ad essere conosciute.
Per questi motivi è stato fortemente voluto un convegno che parlasse di una patologia che nel nostro Paese sta assumendo anche le caratteristiche di un problema sociale, e questo è sempre stato il nostro scopo, quello di informare chi in altro modo non avrebbe avuto la possibilità di esserlo.
Ma le notizie dal convegno non terminano con questo numero.
Sempre a proposito di informazione più completa, questo primo servizio, per ragioni di spazio, sarà seguito da altri nei prossimi numeri del giornale che tratteranno le relazioni in modo il più dettagliato possibile.

Organizzare il 24 settembre un convegno dal titolo:, “Drepanocitosi: è ancora una sconosciuta?”, era nelle nostre corde, come suol dirsi.
Perché, si chiederanno i nostri lettori meno informati.
La drepanocitosi fino a qualche anno fa era quasi una illustre sconosciuta con poche centinaia di casi circoscritti ad una zona della Sicilia.
Ora, con l’aumento delle immigrazioni dal continente africano, sta diventando un problema complicato e quindi era necessario fare il punto sulla cura e l’assistenza di queste persone.
Lo abbiamo specificato anche nell’invito spedito per la partecipazione, nel quale affermiamo: “Drepanocitosi, anemia falciforme, Sickle Cell disease: nomi diversi per una unica patologia.
A volte conosciuta, a volte un po’ meno, ma negli ultimi anni aumentata anche in Italia a tal punto che non si può più fare a meno di conoscerla e studiarla.
Le persone affette da anemia falciforme non hanno mai smesso di promuovere l’attenzione per questa malattia e il dialogo con i loro medici.
Ora tale dialogo diventa più urgente e questo convegno, organizzato nella sede romagnola che da sempre si occupa di anemia falciforme, è la ulteriore testimonianza di un dialogo tra chi ha la malattia e chi la cura: infatti il convegno è stato preparato dalle associazioni con domande precedentemente inviate ai relatori per dare loro l’opportunità di focalizzare i loro interventi sulle esigenze dei pazienti”.

Un convegno quindi organizzato da una associazione di pazienti rivolto ai pazienti ma anche ai medici i quali hanno accettato di partecipare attraverso temi proposti dalle domande dei pazienti stessi.
Una novità che pensiamo sia stata recepita soprattutto per una informazione corretta, perchè gli argomenti trattati sono stati molto importanti.

• La drepanocitosi nel bambino e nell’adulto
La trasfusione e l’exanguinotrasfusione
Trattamento e prevenzione di osteomieliti, necrosi ossea, ulcere, la terapia genica
La prevenzione delle crisi dolorose, polmonari e cerebrali
Il confronto fra clinico e chirurgo
Gli ERN e del futuro della rete delle malattie rare in Europa.

Sono intervenuti medici e ricercatori:
il dott. Gian luca Forni, presidente della SITE, il dott. Giovanni Palazzi del Policlinico di Modena, la dottoressa Silvia Macchi responsabile del Centro spoke delle talassemia dell’ospedale di Ravenna, il dott. Carmelo Fidone ed il dott. Vincenzo Spadola, del Centro di cura delle talassemia di Ragusa, la dottoressa Laura Sainati responsabile del Centro Regionale per la diagnosi e la cura della drepanocitosi di Padova, la dottoressa Beatrice Filippini ed il dott. Maurizio Mordenti dell’ospedale di Rimini, il dott. Marco Zecca direttore dell’oncoematologia pediatrica di Pavia.
Per la parte sociale e sull’argomento ERN Loris Brunetta, membro del TIF e la dottoressa Raffaella Colombatti del Centro Regionale della cura delle talassemia di Padova.
Gli argomenti trattati ed il dibattito sono stati coinvolgenti ed importanti, per questo motivo ci sia concesso di diluire i servizi di questo incontro in varie puntate del nostro giornale per dare modo di pubblicare dettagliatamente ciò che è scaturito dalla giornata.
Partiremo quindi dal primo argomento trattato: la drepanocitosi nel bambino.

* * *

La relazione è stata tenuta dal dott. Giovanni Palazzi il quale ha esordito affermando che quella della drepanocitosi attualmente è una storia condivisa e molti ne hanno esteso le linee guida.

“Credo che sia – ha continuato testualmente – uno dei punti di forza in questi recentissimi anni il fatto che pediatri ed ematologi dell’adulto insieme hanno cominciato a lavorare in team.
Questo ha permesso di produrre in Italia in poco tempo un numero di protocolli e linee guida fino a pochi anni fa impensabili.
La prerogativa di questo convegno è data dal fatto che gli argomenti che trattiamo sono stati chiesti dai pazienti attraverso domande che potessero aiutare i medici a trattare quegli argomenti. Comunque mi prenderò la libertà di aggiungere qualche cosa, pur rispondendo ai quesiti”.

Ha spiegato poi il difetto del globulo rosso affermando che è innanzitutto nell’emoglobina.
Un unico singolo aminoacido che la cambia e la trasforma.
Si aggregano in tanti pacchetti, il globulo rosso viene appesantito da queste catene e diventa più rigido, forma la falce e precipita.

Due cose ha voluto puntualizzare: “uno, precipita, si rompe, quindi meno globuli rossi, meno emoglobina.
Diventa molto rigido e occlude i vasi sanguigni, da qui la crisi oltre il dolore che purtroppo i pazienti conoscono bene”.
Non c’è poi soltanto il globulo rosso a creare la crisi ma quando lo stesso aderisce alle pareti dei vasi provoca una cascata infiammatoria, attiva anche i globuli bianchi e le piastrine quindi tante cellule che contribuiscono in misure diverse a creare questo “tappo” che poi creerà tutti i disastri che sono noti.

“Perché lo dico? – ha continuato testualmente – Per ricordare a tutti noi che le nostre azioni terapeutiche che abbiamo concentrato sul problema dei globuli rossi adesso hanno anche un’altra prospettiva. Incominciamo a ragionare sull’idea che possiamo agire su altri elementi della crisi: sulla cascata citochine infiammatoria, sui globuli bianchi e piastrine.
Ci sono alcuni protocolli che stanno lavorando sull’impedire l’aggregazione piastrinica.
Si sta lavorando in molti fronti per cercare di ovviare al problema delle crisi.
In pediatria abbiamo un numero minore rispetto all’adulto e tuttavia tra questi le infezioni sono tra le cose più importanti”.

C’è stato un aumento esponenziale nei casi di drepanocitosi nel nostro Paese. Quanti sono nel mondo e qual è la differenza di trattamento?
Palazzi ha ricordato che la malattia è presente in tutto il mondo.
Sono quasi 300.000 ogni anno i bambini che nascono. Il 75% sono in zone endemiche. Paesi con 20-40% di portatori della malattia e sono zone del terzo mondo, che non hanno lo stesso accesso e garanzia di cura che abbiamo noi.
“Non è cambiata l’etimologia della malattia – ha affermato – è cambiato l’effetto di immigrazione che ha portato anche chi non si occupava di drepanocitosi ad essere obbligato ad occuparsene”.

È più grave la malattia nei paesi del terzo mondo?
“È più grave soltanto se non c’è l’accesso a strutture mediche e farmaci.
In particolare per la pediatria bisogna ricordare il discorso della profilassi, le infezioni sono ancora al mondo la causa di mortalità infantile nella drepanocitosi ancora più importante.
In fin dei conti se l’antibiotico da tre mesi a sei anni di vita lo dà il pediatra di base è molto importante da parte di chi si occupa di drepanocitosi di fare un’informazione corretta perché non è che di infezione si muore soltanto in Africa, si può morire anche in Italia se uno non si seguono queste poche semplici cose.
Se è importante iniziare precocemente una profilassi antibiotica a tre mesi bisogna saperlo non alla prima crisi, sarebbe bene sapere prima che un paziente è un paziente prima ancora che inizi a sviluppare clinicamente la malattia.
E questo è un ulteriore vanto, in Italia si stanno già incominciando a fare tante cose sullo screening, usciranno ulteriori documenti che daranno indirizzo in questo senso.
Io credo che fare uno screening neonatale per le emoglobinopatie anche in Italia sia un’importante conquista che dovrebbe essere estesa a tutto il territorio.
Poi sarà da decidere se va fatta mirata per singole popolazioni, estesa a tutta la popolazione, questa è una questione politica però va ricordata”.

Come prevenire la crisi e come gestire il dolore?
Ha esordito, rispondendo a questa domanda dicendo che nella drepanocitosi è cruciale avere delle diagnosi precoci prima della prima crisi.
“Abbiamo detto che è importante trattare precocemente il paziente quando ha avuto ancora poche crisi, se ci siamo detti che è importante trattarlo precocemente, e non lo dico io ma le linee guida di AIEOP (Associazione italiana di Ematologia e Oncologia Pediatrica)”.

Quali sono le indicazioni dell’idrossiurea? Se questo farmaco è cruciale, quando possiamo darlo?
Da alcuni anni per fortuna abbiamo alcuni studi che ci hanno dimostrato che è un farmaco che possiamo dare ai bambini anche sotto i quattro anni.
Sicuramente, come tutte le volte che utilizziamo farmaci in maniera più estesa, dovremo poi cominciare di nuovo a considerare il discorso degli effetti collaterali a distanza.  
Oggi forse non abbiamo del tutto chiaro cosa vuol dire dare idrossiurea a due/tre anni e poi a 40 soprattutto per quanto riguarda il discorso spinoso della fertilità maschile.
Se mai il problema nell’uso dell’idrossurea nei bambini è dovuto a che cosa abbiamo nelle mani di diverso.
Oggi in Italia abbiamo l’oncocrabide che sono capsule grandi e non tutti riescono a deglutirl perché non sono divisibili, e questo incide sulla compliance.
Si possono tentare tantissime strade come la formulazione in sciroppo.
Oggi le alternative esistono, farmaci che in Italia non ci sono ma che possiamo importare e che fra poco potranno essere disponibili in in compresse divisibili masticabili ed altri”.

Quando fare l’excange al bambino?
Ha ribadito con fermezza che l’exanguino trasfusione è un presidio irrinunciabile ed ha affermato testualmente che: “anche quando il bambino è molto piccolo la facciamo.
Ci possono essere dei limiti di macchina perché non sempre un aferesista cerca di lavorare o ha piacere di lavorare con un bambino di peso inferiore ai 10 kg, ma esiste ancora l’exanguino manuale che è una cosa assolutamente alla portata di tutti nei reparti e che tutti i medici potrebbe e dovrebbero fare”.

Quando è meglio eseguire una splenectomia?
Ha informato che ci sono delle indicazioni molto precise sul tema della splenectomia anche nel bambino, “ricordo che noi tradizionalmente continuiamo ad avere un limite che ci siamo sempre dati nei sei anni di vita.
Ricordiamo che è possibile splenectomizzare bambini molto piccoli laddove siano venuti sequestri splenici importanti anche sotto i due anni”.

Come avviene la gestione del dolore?
“Abbiamo detto che il dolore appartiene a tutte le età e a tutti gli organi.
Più che mai dobbiamo ricordare alcuni fondamenti a noi ed ai nostri colleghi, perché non è mai semplice usare molti farmaci nei bambini. C’è sempre una sorta di resistenza, bisogna lavorare molto insieme per convincerci a utilizzare farmaci antidolore ma deve essere assolutamente garantito che il trattamento deve essere rapido e fatto secondo una scala del dolore. Il dolore soggettivo riferito dal paziente è sempre vero”.
Ha ricordato che ci sono le linee guida, prima era una scala a tre gradini ora sono soltanto due. Si inizia dai più bassi e si va ai più alti, ricordandosi però che il paziente che conosciamo e che sappiamo già che risponde a quel farmaco, non deve aspettare di ricominciare da capo la scala.
“AIEOP e SITE le linee guida sul dolore le hanno già abbondantemente revisionate, ma la cosa bella è che siano riusciti a mettersi d’accordo”.
Ha anche ricordato che il Ministero della Salute ha da molto tempo emanato delle linee guida sul dolore del bambino affermando alcune cose chiave che sono fondamentali:. Non c’è un effetto tetto con la morfina, per cui si può andare su con i dosaggi senza timore. Ci sono delle dosi già note che i pediatri possono utilizzare. Fa  piacere che in un altro ambito sul dolore in generale, sia ricordato che la rivalutazione dell’efficacia terapeutica dopo 30 minuti dalla somministrazione va fatta, perché se il dolore persiste si continua a trattare fino che non si è almeno ridotto il dolore della metà rispetto a quello iniziale.

Cosa sono le crisi polmonari?
“Ricordo due cose, le sindromi polmonari acute. Qual è la diagnosi. è prima un’infezione o prima una crisi? Non ha importanza, le chiamiamo sindromi polmonari acute e devono avere queste caratteristiche e cioè essere trattate con urgenza con ossigeno terapia, con analgesia, con la trasfusione o la eritroexchange oltre la terapia antibiotica”.


Malattie rare o rare emozioni?

Il 24 settembre a Ravenna si è tenuto il convegno sulle drepanocitosi.
Ho sentito buona parte delle relazioni mediche poi il mio lavoro mi ha ricondotto nel mio studio per ricevere i miei pazienti.
Ho trovato interessante quello che ho sentito su questa malattia, perché nonostante io non mi occupi dell’aspetto organico del corpo, non significa che il soma non sia parte delle sedute psicoanalitiche.
È attraverso il corpo che la persona si presenta.
Ho deciso di scrivere queste poche righe perché mi rendo conto che ci si occupa spesso, e giustamente, del corpo malato dal punto di vista medico, ma cosa significa avere un corpo, essere un corpo?
Come tratta il corpo la psicoanalisi?
Possiamo scindere il corpo “medico” da quello “psichico”?
No. Negli anni sono sempre più convinta che solo l’integrazione multidisciplinare permetta veramente di avere successo nella cura.
Durante il convegno ho sentito diversi relatori parlare di dolore e scale del dolore, ma veramente possiamo definirlo solo in termini oggettivi?
Cos’è il dolore per il paziente?
Il medico lo definisce sulla base dei suoi studi, ma il paziente cosa vuole dirci sul dolore? Siamo così sicuri che quando il paziente parla di dolore è lo stesso che abbiamo in testa noi?

Spesso mi è capitato di chiedere ai pazienti che cos’era per loro il dolore, cosa provavano, come lo vivevano e descrivevano.
Vi posso assicurare che le risposte erano molto diverse nonostante fossero tutti emofilici.
Alcuni familiari non si erano mai posti il problema di che tipo di dolore si trattasse. Eppure il dolore è presente.
Quello che però emergeva prepotentemente è che tutti, figli e genitori, provavano un dolore psichico che, se non trattato nei giusti tempi, diventava trauma.
Il trauma sconvolge la psiche che per proteggersi usa difese arcaiche che saranno anche quelle che svilupperanno la sintomatologia.
Ora mi domando, perché è così difficile parlare di dolore?
Perché il dolore ha toccato tutti, e tutti indistintamente cerchiamo di allontanarlo perché crea sofferenza.
E perché il paziente è così propenso a sapere tutto della malattia, in modo così specifico, quasi avvicinandosi al sapere medico?
In parte, mi direte, perché si vuole conoscere ciò di cui si è affetti, ma questo non succede per altre malattie come l’influenza, cioè per malattie meno gravi. Nella clinica ho visto che questo sapere è una difesa che assume il paziente, per rassicurarsi, per sentire di controllare ciò che fino a quel momento non lo è stato, perché la natura umana è imprevedibile.

Tutti affrontiamo con noi stessi la paura di morte, ma diventa estremamente complicato per chi quasi quotidianamente è riportato a questa realtà.
Cosa significa per un paziente emofilico, talassemico, drepanocitico avere un corpo che continuamente ricorda la fragilità della vita? Se un corpo è ammalato cronicamente come lo si può vivere? Come si può amare il corpo malato? Non possiamo pensare di potere percepire il corpo positivamente se non c’è un investimento libidico su di esso, ma come si può investire su qualcosa che crea tanta sofferenza? Chi fra noi investirebbe sul dolore? È questo uno dei punti centrali della malattia cronica.
Come “innamorarsi” di un corpo malato? In qualche modo si deve arrivare un po’ a quest’obiettivo, perché se no il corpo è negato, rifiutato, forcluso dalla mente e l’individuo deve attivare difese che diventano “tossiche” per la psiche, ma necessarie per gestire la profonda angoscia.
E il medico che rapporto ha con il dolore? In fondo anche lui è un essere umano e ha vissuto esperienze di sofferenza.

Come gestisce allora il dolore del proprio paziente, soprattutto se inconsapevolmente tocca delle proprie esperienze?
Anche il medico di fronte alle situazioni gravi deve trincerarsi davanti a un sistema difensivo.
Se ogni giorno tocca concretamente la possibilità della morte necessariamente la sua psiche ha bisogno di difendersi. In fondo che significato può avere per il medico la scelta della professione?
La cura di un corpo malato, e per ognuno di loro questo avrà un significato più profondo.

Lo psicoanalista può essere d’aiuto perché il suo lavoro, che può essere svolto sia con il medico sia con il paziente, permette di alleggerire l’angoscia che si presenta negli incontri di cura quando l’emotività circola attraverso processi chiaramente percepibili o attraverso una comunicazione più inconscia.

Spesso si critica la lunghezza dei percorsi psicoanalitici, ma riflettiamo… come possiamo pretendere di “denudare” un paziente delle difese che faticosamente ha eretto per sopravvivere al dolore in breve tempo?
Non ha forse bisogno dei suoi tempi per toccare quella sofferenza così angosciante? Bisogna prima fornirlo degli strumenti adatti per affrontare questo cammino, faticoso ma necessario.
La lunghezza del percorso è il rispetto del paziente. Che cosa indaga però la psicoanalisi, come si ragiona psicoanaliticamente? Tante sono le cose che bisogna capire del paziente: Ha un Io fragile? Che rapporto tra Io, Super-Io e Realtà? Le pulsioni libidiche sono integrate con le pulsioni mortifere? Siamo di fronte a un masochismo di vita o di morte? Ci troviamo davanti al rappresentabile, irrappresentabile, al non rappresentabile? Narcisismo primario o secondario? E tanto tanto altro. Mi sono permessa questa piccola digressione per fare capire che la psicoanalisi è una disciplina complessa che ha come solo scopo la cura, cercare di alleviare il dolore psichico. Tutti hanno diritto all’esistenza, a una buona esistenza e questo in parte è dato da come noi viviamo, che significati diamo agli eventi, alle relazioni con gli altri, ecc …

Questi brevi accenni al dolore, che non esauriscono l’argomento, sono un mio modo di iniziare a fare conoscere, a chi non è del mestiere, la complessità del paziente e del lavoro psichico.

Concludo riflettendo che se Vincenzo Russo Serdoz, che purtroppo non ho avuto il piacere di conoscere, è riuscito a creare un’associazione e avvicinare molti pazienti è perché, a mio avviso, aveva una profonda sensibilità emotiva ed è questo che permette la costruzione.
L’aridità emozionale l’avrebbe portato al fallimento, perché i pazienti, i medici avrebbero sentito freddezza.
Quando si sente freddo si cerca qualcosa di caldo: le emozioni (abbracci, tenerezze, ecc.).
Certo a volte le emozioni sono intollerabili, ma cercare di cacciarle non le fa scomparire, loro agiscono continuamente, perché solo la parola gli da diritto di essere guardate, ascoltate, sentite. Solo così diventano meno pericolose perché conosciute.

Contattare i nostri dolori, saperli riconoscere questo sì che ci permette di lasciare spazio a quello degli altri, ma soprattutto fornirci la possibilità di vivere godendo, altrimenti il rischio è di sentire una vita arida o più spesso il dolore della vita.

Mi auguro che questo breve scritto sia l’inizio, almeno per qualcuno, per una riflessione più approfondita della psicoanalisi, che non si pone come sapere assoluto e non vuole essere nemmeno l’incarnazione del giudizio, ma solo uno spazio dove porre i propri vissuti, accoglierli, darne un senso perché il passato traumatico non diventi la fine di un futuro di avvenire.

Anita Gagliardini
agagliardini@libero.it

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