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INTERVISTA ALLA DOTTORESSA STEFANIA PEDRONI SULLE MALATTIE NEUROMUSCOLARI

Abbiamo con noi la Dott.ssa Stefania Pedroni, psicologa psicoterapeuta presso il Centro clinico Nemo di Milano, Vicepresidente nazionale UILDM – Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare, Referente del Gruppo Psicologi UILDM, Delega ai rapporti con la Commissione Medico-Scientifica UILDM. Vorremmo fare il punto sullo stato dell’arte delle malattie neuromuscolari con lei che, con la sua carrozzina, si porta a spasso una di queste.

La UILDM compie 63 anni, tu da circa 9 sei al tavolo della Direzione Nazionale come vicepresidente. Ti consideri soddisfatta della posizione attuale raggiunta sulle patologie neuromuscolari sia per quanto riguarda la parte clinica che quella della qualità della vita?
“Se penso a quando mi è stata diagnosticata la distrofia muscolare dei cingoli nei lontani anni ’80, ricordo che il medico mi disse che l’aspettativa di vita non permettesse di raggiungere la maggiore età.
Oggi parlo con persone quarantenni con la distrofia muscolare di Duchenne.
Credo che questo sia un grande risultato della ricerca medica che ha permesso, attraverso la scoperta di presidi respiratori come la ventilazione non invasiva, non solo di aumentare gli anni di vita vissuti da persone con malattie neuromuscolari, ma anche la possibilità di fare esperienze, uscire di casa, studiare, lavorare, viaggiare.
Se respiro meglio, se prendo farmaci che si dimostrano efficaci nella riduzione di sintomi poco compatibili con una buona qualità di vita, posso permettermi di costruire una vita degna di essere vissuta”.

Da 33 anni la ricerca scientifica legata alle malattie rare e quindi anche a quelle neuromuscolari è supportata da Telethon: si vedono luci in fondo al tunnel?
“Finalmente, dopo più di 30 anni di Telethon in Italia, si è iniziato a parlare di terapie sperimentali per alcune forme di malattie neuromuscolari e anche per le distrofie.
Arrivare fino a qui non è stato semplice né veloce o lineare. Telethon supporta soprattutto la ricerca di base, che rappresenta un punto di partenza fondamentale per tutte le successive scoperte cliniche. Grazie ai suoi risultati possiamo capire come funzionano, per esempio, i geni o le proteine che lavorano all’interno del nostro organismo. Conoscere i meccanismi che regolano l’espressione dei geni è indispensabile per creare nuovi farmaci mirati a bersagli precisi. Dopo quella di base, la ricerca preclinica è una tappa necessaria, prima di poter passare alla sperimentazione umana. Supponiamo che dalla ricerca di base arrivino le indicazioni per un nuovo bersaglio molecolare verso il quale indirizzare lo studio di farmaci: prima di valutare gli effetti di una nuova cura negli esseri umani, i ricercatori devono verificarne l’efficacia e la sicurezza in cellule in coltura e animali di laboratorio. Si passa poi all’ultima fase di studio prima della richiesta di approvazione di un nuovo farmaco, ovvero la ricerca clinica. Si tratta di sperimentazioni che coinvolgono pazienti per valutare l’efficacia di un nuovo trattamento. In genere la ricerca clinica è divisa in quattro fasi: le prime tre sono necessarie a ottenere l’approvazione del nuovo trattamento, alla commercializzazione e all’uso nei pazienti, mentre la quarta viene effettuata ad approvazione ottenuta, per cogliere effetti rari, osservabili soltanto su larghissima scala.
In questo periodo storico abbiamo molti trattamenti sperimentali in fase di ricerca clinica che stanno dando risultati promettenti nel rallentamento del decorso della patologia, nell’arresto della progressione o, soprattutto nei più piccolini, nella comparsa di sintomi molto più lievi di quanto accadrebbe senza il trattamento. Credo che questo possa farci sperare in un continuo miglioramento delle cure per queste malattie”.

Uno dei punti nodali di queste patologie è la corretta presa in carico. Cosa vuol dire NeMO? Potremmo dire che nei Centri clinici NeMO viene fatta la giusta presa in carico del paziente neuromuscolare?
“La corretta presa in carico della persona con malattia neuromuscolare è fondamentale per la qualità della vita della persona, per la gestione di alcuni sintomi e per monitorare il decorso, introducendo precocemente tutti i presidi, gli ausili e gli adattamenti necessari a vivere una vita piena e soddisfacente.
Il modello per eccellenza in questo ambito è quello multidisciplinare che prevede la presa in carico da parte dei diversi specialisti coinvolti nel percorso terapeutico.
Questo consente non solo di avere una visione globale dello stato di salute del paziente, ma permette anche un lavoro di stretta e continua collaborazione tra tutte le figure professionali coinvolte.
UILDM ha contribuito alla fondazione dei Nemo – Neuromuscolar Omnicentre – che sono centri clinici in cui il paziente va e trova tutte le figure professionali utili a ottenere una diagnosi precisa, a monitorare l’andamento della patologia e a ricevere chiare indicazioni cliniche relative alle fasi più critiche ma anche alla quotidianità. Oggi i Centri Nemo sono presenti in 7 città di 6 regioni italiane e rappresentano un modello di riferimento nella presa in carico multidisciplinare delle persone con malattia neuromuscolare, dove pubblico e privato collaborano nella realizzazione di percorsi di visita e controlli periodici”.

Visto che sei emiliana, a che punto siamo nella presa in carico multidisciplinare nella nostra Regione Emilia Romagna?
Si può esportare questo modello a livello di sanità nazionale?
“In Emilia-Romagna abbiamo diverse realtà che si occupano di malattie neuromuscolari, ma manca la visione multidisciplinare, in cui le diverse figure sanitarie di riferimento comunicano tra loro, in modo da proporre al paziente una sintesi integrata e condivisa della cura.
Bologna sta manifestando interesse a conoscere il “modello Nemo” per introdurlo nella realtà sanitaria pubblica.
Si potrebbe trattare del primo caso in Italia completamente pubblico di centro fondato sull’esperienza dei Centri Clinici NeMO.
Se funzionerà, potrà aprire la strada all’attivazione di percorsi a livello di sanità nazionale”.

Ci sono discipline mediche che per una patologia muscolare sono di primaria importanza, quali e perché?
“Le figure mediche fondamentali nella diagnosi e cura delle persone con malattie neuromuscolari sono il neurologo, lo pneumologo, il cardiologo e il fisiatra. Infatti le maggiori compromissioni avvengono a livello degli apparati motori, neuromotori, respiratori e cardiaci. Solitamente il neurologo è il case manager che si occupa di fare sintesi di tutte le valutazioni e le indicazioni cliniche proposte dai vari operatori.
A questi professionisti si associano altre figure utili alla qualità di vita della persona, come dietologo, nutrizionista, logopedista e otorinolaringoiatra per gli aspetti associati a nutrizione e deglutizione.
Fisioterapista respiratorio, fisioterapista neuromotorio, terapista occupazionale, psicologo e nurse coach si occupano di riabilitazione e di sostegno alla persona nella gestione della quotidianità”.

Tu sei psicologa, che posizione detiene questa disciplina nella qualità di vita del paziente neuromuscolare, dei suoi caregivers e della sua famiglia?
“Non tutte le persone con malattia neuromuscolare hanno bisogno dello psicologo. Tuttavia, essendo malattie degenerative, comportano un grande dispendio di energie psichiche nell’adattamento continuo e costante che la persona deve mettere in atto dopo ogni peggioramento. Non riesco più a fare quel determinato movimento che mi permetteva di raggiungere quel risultato? Devo trovare un altromodo per farlo e inizia la ricerca, la prova e la riprova fino a quando trovo la soluzione!
Ed ecco che compare all’orizzonte un nuovo peggioramento e devo ricominciare da capo.
Lo psicologo si occupa di valutare, insieme al paziente, se sia presente disagio psicologico che può peggiorare la qualità di vita e può intervenire per aiutare a riconoscere e utilizzare le proprie risorse (psicologiche, relazionali, strumentali), per permettere alle persone di accedere a esperienze gratificanti, recuperando così le energie spese nell’adattamento.
Lo stesso può fare con i familiari e i caregivers, dal momento che il carico assistenziale può arrivare a essere molto pesante e lo psicologo può aiutare a riconoscere i segnali di burnout e a stimolare un cambiamento nella pianificazione dell’assistenza, aiutando la persona a riconoscere e a gestire le emozioni sottostanti”.

Sei di Zocca (MO), ora vivi a Milano e lavori come psicologa al Centro Nemo di Milano, per te cosa vuol dire “Vita indipendente”?
“Vita Indipendente per me significa poter decidere come vivere la propria vita.
Questo poi va declinato sulla singola persona. Per esempio per me vita indipendente è poter scegliere in quale città andare ad abitare e con chi.
Per altri può significare scegliere cosa studiare o quale lavoro fare. Per altri ancora può semplicemente voler dire poter andare a prendere un gelato senza i genitori. Per poter permettere questa libertà di scelta è importante abbattere le barriere (architettoniche, culturali, psicologiche, ecc.) e mettere a disposizione strumenti utili alla persona con disabilità”.