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LA TERAPIA GENICA DELL’EMOFILIA CON I VETTORI LENTIVIRALI

FILO DIRETTO CON I RICERCATORI
Era il maggio del 2015 quando i responsabili del nostro giornale hanno varcato per la prima volta la porta dell’Istituto San Raffaele-Telethon per la Terapia Genica (SR-Tiget) di Milano per incontrarne il direttore, il prof. Luigi Naldini, e i ricercatori che con lui lavorano sull’emofilia (e non solo).
Un incontro importante, che non a caso abbiamo voluto intitolare “Il paziente al centro del sistema Telethon” (vedere nostro articolo su EX di maggio, pagine 12-16. – N.d.R.) e che ci ha permesso di conoscere nel dettaglio la linea di ricerca sulla terapia genica per l’emofilia che questo gruppo di ricercatori segue da tanto tempo.
Ci eravamo lasciati con le parole del prof. Naldini, che facendo un bilancio dello state dell’arte ci aveva detto: “innanzitutto contiamo di completare gli studi nei cani, per definire la dose terapeutica ottimale in termini di efficacia e sicurezza.
Passo importante successivo sarà mettere in piedi un processo di produzione del vettore secondo i cosiddetti criteri “di buona fabbricazione” (Good Manufacturing Practice – GMP), che assicurino cioè degli standard di qualità elevati del vettore prodotto tali da permetterne la somministrazione nell’uomo.
Abbiamo certamente davanti ancora alcuni anni di lavoro”.
A distanza di quasi tre anni, il 15 febbraio 2018 siamo tornati all’SR-Tiget per un aggiornamento, questa volta insieme anche agli altri importanti rappresentanti delle persone con emofilia, ovvero Fedemo e Fondazione Paracelso.
È stato un importante momento di scambio, in cui si sono intrecciate due spinte fondamentali ma molto diverse: quella verso la conoscenza dei ricercatori, che lavorano ogni giorno in laboratorio, e i bisogni e le aspettative di chi convive ogni giorno con l’emofilia.
È emerso come i bisogni siano diversi e il concetto di tempo non sia misurabile nello stesso modo: il tempo dei pazienti corre più in fretta, e per quanto noi vorremmo che la ricerca avesse il nostro stesso passo, il tempo dei ricercatori risponde ad altre regole, che per loro natura potrebbero sembrare inconciliabili con le nostre.
Ecco perché la famigerata “alleanza terapeutica” potrebbe nascere proprio nelle sedi in cui la ricerca prende forma, prima ancora di arrivare alla cura.
Da qui l’importanza di questo nuovo incontro, che ha avuto anche la peculiarità di presentarci non soltanto i progressi della ricerca, ma anche le collaborazioni con ricercatori esterni all’istituto e con l’industria farmaceutica.

Ad aprire la giornata d’incontro è stato il prof. Naldini, che ha ripercorso con noi quanto fatto finora.
“Le malattie genetiche – ha ricordato – sono il focus del lavoro del nostro Istituto: a partire dallo studio delle basi genetiche di alcune malattie individuiamo quelle per le quali riteniamo di poter contribuire allo sviluppo di terapie innovative. Una volta che queste prime idee sono consolidate dai nostri esperimenti in laboratorio, entriamo in una fase molto delicata, quella dello sviluppo preclinico, in cui sondiamo l’interesse delle industrie farmaceutiche al nostro lavoro affinché ne diventino sponsor. Lo sviluppo clinico di una terapia richiede infatti investimenti e competenze specifiche che un’organizzazione come Fondazione Telethon non ha del tutto, da qui l’importanza di stringere alleanze con le industrie farmaceutiche”.
Successivamente ha illustrato gli studi clinici attualmente in corso su tre malattie genetiche rare (beta talassemia, una malattia da accumulo lisosomiale chiamata leucodistrofia metacromatica e una immunodeficienza congenita, la sindrome di Wiskott-Aldrich) per le quali i ricercatori dell’istituto hanno messo a punto un approccio di terapia genica ex vivo con cellule staminali ematopoietiche: il trattamento prevede cioè il prelievo delle cellule staminali ematopoietiche del paziente, la loro correzione in laboratorio  grazie a un vettore contenente il gene terapeutico e la loro successiva reinfusione nell’organismo.
Nota importante, i vettori impiegati sono lentivirali, derivano cioè dal virus Hiv opportunamente modificato (della versione originale viene mantenuto solo il 10 per cento e non c’è alcun rischio che si riformi il virus): questo virus, che come è tristemente noto si è molto aggressivo ed efficace nei confronti delle cellule umane, proprio per questo è diventato, una volta “addomesticato” a sufficienza in tanti anni di lavoro, un veicolo molto efficiente di geni terapeutici.
Ad oggi sono oltre 50 i pazienti complessivamente trattati e la speranza è quella di arrivare alla registrazione di queste nuove terapie presso l’Agenzia europea del Farmaco (EMA) nel giro di pochi anni, come avvenuto nel 2016 per il trattamento di una grave immunodeficienza di origine genetica chiamata ADA-SCID: si tratta di Strimvelis, la prima terapia genica ex vivo con cellule staminali ematopoietiche approvata in assoluto al mondo, messa a punto dai ricercatori di SR-Tiget e resa disponibile grazie all’alleanza con GlaxoSmithKline.
“Fino ad oggi – ha spiegato il prof. Naldini – la terapia genica che abbiamo applicato nei pazienti è sempre stata soltanto di tipo ex vivo: un trattamento che ha avuto risultati molto importanti dal punto di vista clinico, ma che è anche molto invasivo se si pensa che è sostanzialmente assimilabile a un trapianto di midollo osseo.
Per poter ricevere le nuove cellule curate il paziente deve ricevere una chemioterapia che “faccia spazio” nel midollo, il tutto in isolamento per proteggerlo da eventuali infezioni.
Il tempo di recupero, inoltre, è piuttosto lungo.
Naturalmente l’invasività della terapia è ampiamente compensata dalle prospettive terapeutiche, soprattutto se si considera la gravità di queste malattie, per le quali in alcuni casi non ci sono alternative, oppure non è fattibile il trapianto per mancanza di un donatore compatibile.
Oggi stiamo considerando di sfruttare i vettori lentivirali anche per degli approcci di terapia genica in vivo, che prevedono cioè la somministrazione diretta nell’organismo, con il vantaggio di non richiedere una chemioterapia preparatoria e di non presentare fasi critiche, se non un’eventuale infiammazione acuta nel momento dell’iniezione.
Per contro, la terapia in vivo richiede di somministrare quantitativi maggiori di vettore rispetto all’approccio ex vivo.
In questi nove anni di trattamento di pazienti con diverse malattie attraverso la terapia ex vivo abbiamo imparato molto sul comportamento dei vettori lentivirali.
Abbiamo visto come siano in grado di inserirsi nel DNA, un aspetto molto vantaggioso perché significa che la modificazione genica è stabile e viene trasmessa da quella cellula staminale a tutte le sue migliaia di cellule figlie per tutta la vita.
Lo conferma il fatto che i pazienti che abbiamo trattato anche nove anni fa continuano ad avere tutte le cellule del sangue con il nuovo gene.
L’aspetto rischioso, da tenere quindi sotto controllo, è invece il fatto che l’inserzione del vettore nel genoma avviene in modo non controllato.
In passato, nel caso di altri approcci di terapia genica si è visto che in alcuni casi l’inserzione poteva avvenire vicino a un gene “delicato” perché coinvolto nella regolazione della crescita cellulare: questo poteva tradursi nell’attivazione del gene e in una crescita incontrollata della cellula, che in alcuni casi nel tempo ha portato alla leucemia.
Questo è stato uno dei principali problemi che la terapia genica ha incontrato, ma parliamo dei vettori di prima generazione: quelli che usiamo oggi sono diversi, e anche se non siamo in grado di controllare dove vanno a finire sappiamo che se si inseriscono vicino a un gene “delicato” come quello descritto prima hanno pochissime probabilità di attivarlo. Ad oggi nessuno che oltre a noi utilizzi questi vettori in ambito clinico – sono più di 200 i pazienti trattati nel mondo – ha riscontrato problemi di questo genere.
Nel caso dei nostri pazienti, siamo riusciti a correggere oltre il 90 per cento delle loro cellule staminali e non abbiamo riscontrato eventi avversi nonostante l’ampio numero di inserzioni.
Un risultato rassicurante, soprattutto considerando che le staminali del sangue sono tra le cellule più suscettibili ad andare incontro a una crescita incontrollata: sulla base di questi dati possiamo quindi pensare di applicare i vettori lentivirali anche nell’ambito di malattie meno “critiche” e con cellule bersaglio diverse dalle staminali ematopoietiche, come per esempio quelle del fegato nel caso della terapia genica dell’emofilia.
In tal senso, i risultati preclinici ottenuti finora sono andati anche oltre le nostre aspettative: siamo molto contenti, innanzitutto per le potenzialità terapeutiche, ma anche per le conferme dal punto di vista scientifico”.

ALESSANDRA ZATTI
A raccontare l’organizzazione che sta dietro un istituto come l’SR-Tiget è stata la dott.ssa Alessandra Zatti, che ha ricordato come a guidare quotidianamente l’operato della Fondazione Telethon siano due principi fondamentali: la missione, ovvero il sostegno alla ricerca scientifica per far avanzare la conoscenza sulle malattie genetiche rare e sviluppare potenziali terapie, e la visione a lungo termine, ovvero trasformare i risultati della ricerca in terapie fruibili dai pazienti.
Per mantenere l’equilibrio tra una missione così ambiziosa e una visione così di lungo termine occorre da una parte un dialogo costante con la comunità dei pazienti per comprenderne i bisogni, dall’altra un metodo che garantisca l’eccellenza della ricerca finanziata, perché solo da una ricerca eccellente i risultati possono tradursi in terapie fruibili. In questo senso la Fondazione Telethon ha adottato un sistema di selezione in linea con le migliori prassi internazionali, che consente di valutare le proposte presentate dai ricercatori in modo molto stringente.
“I nostri sistemi di valutazione rispondono a un principio condiviso che è quello del peer-review, cioè del confronto tra pari: i progetti proposti vengono cioè valutati da una commissione di esperti indipendenti e privi conflitti di interesse, che offrono ai ricercatori l’opportunità di ricevere una valutazione molto utile per l’avanzamento della loro ricerca.
Parallelamente, anche i donatori ricevono una rendicontazione puntuale e trasparente sull’impiego dei fondi e sui risultati scaturiti dai progetti finanziati.  
La ricerca finanziata dalla Fondazione è essenzialmente di due tipi: intramurale ed extramurale.
Nel primo ricade non solo l’Istituto San Raffaele-Telethon per la Terapia Genica ma anche l’Istituto Telethon di genetica e medicina di Pozzuoli, oltre al programma carriere intitolato a Renato Dulbecco, che vede coinvolti giovani ricercatori localizzati in varie istituzioni del Paese.
Per ricerca extramurale si intendono invece i progetti finanziati tramite bando all’interno di istituti e università.
Per quanto riguarda in particolare l’emofilia, Fondazione Telethon è sempre stata storicamente molto impegnata su questa malattia: ad oggi sono stati finanziati 15 progetti dedicati, che hanno visto il coinvolgimento di 10 gruppi di ricerca in tutto il Paese, per un totale di 2,8 milioni di euro investiti.
Complessivamente, il lavoro di questi ricercatori si è tradotto in 67 pubblicazioni con un impatto molto alto su varie tipologie di ricerca, sia di base che preclinica.
Allo stato attuale, oltre al progetto di ricerca coordinato dal prof. Naldini e dal dott. Cantore, avviato già nel 2003, la Fondazione Telethon sta finanziando anche un progetto di ricerca molto promettente coordinato dalla dott.ssa Francesca Fallarino dell’Università di Perugia.
Il progetto, finanziato per la prima volta nel 2014 e successivamente nel 2017, riguarda un aspetto molto importante per chi è affetto dalla forma A, ovvero lo sviluppo di una risposta immunitaria contro il fattore VIII assunto con la terapia sostitutiva.
Questo progetto ha proprio l’obiettivo di individuare le strategie per contrastare questo effetto e migliorare  l’efficacia delle terapie attualmente disponibili, possibilmente complementare quindi alla prospettiva futura rappresentata dalla terapia genica.
Nel complesso, quindi ci teniamo a sottolineare quanto la Fondazione sia storicamente impegnata nel campo dell’emofilia, con risultati brillanti e con un approccio che mette sempre il paziente al centro del suo operare”.

FEDERICA BASILICO
Riprendendo invece l’accenno del prof. Naldini all’importanza dell’alleanza con l’industria farmaceutica, la dott.ssa Federica Basilico ha presentato la partnership fra SR-Tiget e un’azienda farmaceutica, finalizzata a rendere disponibile ai pazienti la terapia genica per l’emofilia A e B a cui stanno lavorando i ricercatori dell’istituto.
“Questo esempio di collaborazione fra accademia e azienda è secondo noi non solo virtuoso, ma forse in questo momento l’unico modo per riuscire davvero ad arrivare in fondo al percorso. La ricerca accademica infatti riesce
ad arrivare con le proprie risorse soltanto fino a un certo punto; quando però si tratta di interagire con le autorità regolatorie, effettuare gli studi clinici e ancora più avanti gestire l’accesso al mercato, occorrono risorse, sia umane che economiche, diverse, più tipiche dell’industria farmaceutica.
In questo specifico caso, nel 2014 Fondazione Telethon e Ospedale San Raffaele (le due entità legali alla base nel nostro istituto) hanno siglato un’alleanza con l’azienda farmaceutica Biogen, con lo scopo di sviluppare una terapia genica in vivo per l’emofilia A e B tramite l’utilizzo dei vettori lentivirali.
Ciascun partner mette a disposizione dell’alleanza competenze specifiche e fra loro complementari: da parte di SR-Tiget un’esperienza scientifica pluriennale nello sviluppo di terapie geniche, da parte di Biogen una conoscenza approfondita delle patologie ematologiche, in particolare l’emofilia.
Nel tempo il nostro interlocutore è cambiato: un anno fa i programmi sulle patologie ematologiche sono infatti passati alla spin-off Bioverativ, che nelle scorse settimane è stata acquisita dall’azienda Sanofi.
Tuttavia, nonostante i cambiamenti aziendali e qualche inevitabile rallentamento, sia il progetto sia il contratto sono rimasti gli stessi.
In sostanza, quest’alleanza si traduce in uno sviluppo congiunto dei due programmi di ricerca, fino alla cosiddetta “clinical proof of concept”, ovvero alla dimostrazione della sicurezza ed efficacia della terapia nei pazienti. Si tratta di un percorso lungo, che parte dalla ricerca di laboratorio e, dopo la fase preclinica in modelli animali (in cui ci troviamo attualmente), approda a quella della sperimentazione clinica nei pazienti.
Lo studio clinico si svolgerà presso l’Ospedale San Raffaele, che negli anni ha sviluppato solide competenze nella gestione di pazienti che si sottopongono a terapia genica: uno dei punti di forza del nostro istituto è infatti sempre stata la prossimità tra ricerca di base e clinica.
Tuttavia, poiché l’Ospedale manca di un’esperienza specifica sull’emofilia, da qualche anno abbiamo coinvolto i medici del Policlinico di Milano esperti di questa patologia, in particolare il gruppo del prof. Mannucci e oggi della prof.ssa Pejvandi e della dott.ssa Santagostino.
Anche in questa fase precoce di sviluppo il loro punto di vista è per noi molto prezioso, perché conoscono l’impatto della malattia sulla vita quotidiana e possono aiutarci a valutare quanto effettivamente la terapia genica possa fare la differenza per il paziente.
Perché le cose funzionino, infatti, bisogna portare a bordo tutte le esperienze necessarie per arrivare all’obiettivo”.

ALESSIO CANTORE
Infine, il dott. Alessio Cantore ha spiegato come utilizzano i virus per il trasferimento genico, trasformandoli in perfetti “cavalli di Troia”.
“Una volta manipolato in laboratorio il virus, Hiv in questo caso, non è più tale per noi, ma diventa un vettore lentivirale. In questa forma ingegnerizzata non è più in grado di dare origine a un’infezione, ma è ancora capace di fare ciò che ci interessa, ovvero trasportare il materiale genetico che noi abbiamo inserito al suo interno, in questo caso il gene per il fattore VIII o il fattore IX della coagulazione. In condizioni normali, un virus contiene le informazioni genetiche per produrre copie di se stesso, per cui nel momento in cui entra in una cellula e vi inserisce il proprio DNA, questa produce quantità elevate di virus, che a loro volta infetteranno altre cellule e propagheranno così l’infezione. Un vettore virale, invece, del virus originale contiene soltanto la parte necessaria per entrare nelle cellule: non è quindi in grado di replicarsi, ma trasporta nella cellula ospite il DNA di nostro interesse, che verrà peraltro trasmesso anche alle cellule figlie. A ideare per primo un vettore di questo tipo a partire da Hiv è stato proprio il prof. Naldini negli anni ’90: nel tempo lo abbiamo perfezionato per renderlo sempre più efficace e più sicuro.
Al momento sono già in corso in Inghilterra e negli Stati Uniti delle sperimentazioni cliniche di terapia genica per entrambi i tipi di emofilia che impiegano degli altri vettori, chiamati adeno-associati (AAV): i risultati sono positivi, soprattutto nel caso dell’emofilia B, un po’ meno sull’emofilia A. In generale questi vettori sono molto ben tollerati, ma presentano anche delle limitazioni, prima fra tutte la presenza in una percentuale significativa della popolazione (si stima fino al 40%) di anticorpi diretti contro di loro, che ne neutralizzano quindi l’effetto. Inoltre, i vettori AAV non integrano il loro DNA nelle cellule ospiti, quindi non sono adatti per l’uso pediatrico, ovvero per organismi in attiva crescita. Da qui la nostra idea di impiegare i vettori lentivirali, che integrandosi nel DNA garantiscono una correzione a lungo termine anche nelle cellule che dovessero replicarsi: in questo modo la terapia genica sarebbe adatta per quei pazienti dove c’è più necessità di agire, ovvero quelli in età pediatrica. Inoltre, a differenza di quanto accade nel caso dei vettori AAV, il virus “di partenza” Hiv è praticamente sconosciuto al nostro sistema immunitario, quindi è quasi impossibile che una persona abbia già degli anticorpi diretti contro questi vettori.
Come organo bersaglio della nostra terapia genica abbiamo scelto il fegato, in quanto è l’organo deputato a produrre anche i fattori della coagulazione. Peraltro il fegato è coinvolto in numerose patologie genetiche, quindi è molto studiato anche come potenziale bersaglio della terapia genica. In questi ultimi quindici anni di lavoro abbiamo dimostrato di essere in grado di trasferire i geni dei fattori della coagulazione al fegato di topi modello per entrambe le forme di emofilia.
Inoltre, per migliorare l’efficienza del trasferimento genico abbiamo introdotto delle modifiche che rendono questi fattori “iperattivi”, il che permette di raggiungere un risultato terapeutico anche con una minore quantità di proteina prodotta. Quello della quantità di farmaco da somministrare è infatti un tema molto delicato, che è emerso soprattutto quando dal modello murino siamo passati a un modello animale di taglia maggiore, il cane. Nei primi esperimenti fatti su cani adulti affetti da emofilia B di 20-25 kg di peso abbiamo raggiunto livelli di fattore IX solo dell’1%, ma quando abbiamo iniziato a trattare i cuccioli abbiamo osservato dei notevoli progressi (mediamente del 15%, con picchi fino al 20-30%).
Un altro aspetto di cui ci siamo occupati riguarda la struttura del vettore: dagli esperimenti condotti nel modello murino abbiamo visto che il vettore tendeva a essere “catturato” da particolari cellule del sistema immunitario, i macrofagi, che di fatto lo riconoscevano come un virus da eliminare. Modificando opportunamente la superficie del vettore siamo riusciti a inibire quest’azione “spazzina” dei macrofagi e a evitare quindi che una porzione significativa del nostro farmaco venisse eliminata dal sistema immunitario. Questa modifica ha quindi reso il nostro vettore non solo più efficiente, ma anche più sicuro perché meno in grado di produrre infiammazione: un risultato così incoraggiante da convincere noi e il nostro partner Bioverativ ad avviare un vero e proprio piano di sviluppo clinico. In tal senso, il programma che al momento è in fase più avanzata è quello sull’emofilia B: dal punto di vista della fattibilità, infatti, il fattore IX presenta dei vantaggi, perché il gene è piccolo e quindi facilmente “confezionabile” nel vettore e poco immunogenico, ovvero meno in grado di stimolare una risposta immunitaria. Ultimamente, però, abbiamo accelerato anche il lavoro sul fattore VIII, che però presenta qualche criticità in più: il gene infatti è troppo grosso rispetto alla capienza del vettore, quindi è necessario usarne una forma ridotta. Inoltre questo gene è più difficile da esprimere e la proteina è molto più immunogenica, stimola cioè una risposta contro sé stessa da parte del sistema immunitario (che di fatto ne neutralizza l’effetto). In conclusione, quindi, stiamo lavorando intensamente alla terapia genica di entrambe le forme con i nostri vettori lentivirali “migliorati”. Al momento la terapia genica per l’emofilia B è in una fase più avanzata, ma contiamo di portare avanti anche quella per l’emofilia A il più rapidamente possibile”.

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Il dibattito intenso e dettagliato che ne è seguito ed anche le domande che sono state rivolte ai ricercatori, durante le loro esposizioni, ma soprattutto le conclusioni di Alessia Daturi, “responsabile delle relazioni con le Associazioni amiche di Fondazione Telethon”, che ha ribadito l’importanza fondamentale di questi periodici incontri per costruire una vera alleanza terapeutica tra tutti gli attori del sistema, ci convincono una volta di più che siamo di fronte a una conferma, se ancora ce ne fosse la necessità, di quanto sia importante la partecipazione di tutte le componenti e cioè, ricercatori, medici, responsabili di associazioni di pazienti. Tutto questo rivolto verso i media, i pazienti, le autorità sanitarie e politiche, affinché si rendano conto che i finanziamenti a Telethon ed al SR-Tiget sono determinanti verso una eccellenza tutta italiana che va conosciuta e, soprattutto, sostenuta.

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