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NOSTRA INTERVISTA ALLA FISIOTERAPISTA ELENA BOCCALANDRO

Si è svolto a Napoli il 23 giugno scorso organizzato da Roche un convegno dal titolo “Hembraces new frequencies – tuning life in hemophilia”, durante il quale si è discusso sull’evoluzione nella gestione del paziente emofilico e sulla definizione di profilassi nelle linee guida della World Federation of Haemophilia, spostando il focus soprattutto sulla qualità di vita del paziente emofilico attraverso tutte le manifestazioni della vita quotidiana.
Hanno partecipato i responsabili dei Centri di Firenze dott. Csstaman, del Centro di Genova dott. Molinari e della Romagna dottoressa Biasoli i quali hanno discusso sulla profilassi che premette alle persone con emofilia di condurre una vita sana ed attiva ed in questo contesto troviamo in primo piano l’attività fisica legata a mantenere il corpo fisicamente sano.
Per questo abbiamo colto l’occasione per incontrare la dott.ssa Elena Boccalandro che ha partecipato al dibattito proprio parlando come fisioterapista, per approfondire la storia e le nuove prospettive della fisioterapia legata alla patologia emofilica in Italia, continuando quel dialogo che il nostro giornale aveva aperto con lei in occasione di un’altra intervista pubblicata nel numero di maggio del 2020 (vedere alle pagine 4/6 – n.d.R.) nella quale affermava tra l’altro: “Oggi la cura dell’emofilia trova la sua risoluzione non solo attraverso la figura, seppur importante dell’ematologo, ma si esprime anche attraverso le indicazioni dei differenti specialisti che, con le loro intuizioni ed osservazioni scientifiche contribuiscono alla creazione di una risposta di cura eccellente per un paziente complesso”.

Da questo colloquio ne è scaturito un interessante e ampio scenario, legato all’approccio nuovo e in via di continua crescita, della prevenzione e terapia muscoloscheletrica.
Le abbiamo chiesto di descrivere il proprio ruolo, da quanto tempo si occupa di questa patologia e quali siano stati i progressi del paziente, anche attraverso la formazione e informazione dello stesso, rispetto al passato.


“Non è mai stato così evidente ed importante considerare l’apparato muscoloscheletrico – ci ha risposto alla prima domanda che le abbiamo rivolto – non come una struttura che passivamente subisce i carichi imposti dal peso e dalla forza di gravità quanto un elemento e strumento di adattamento delle strategie muscolari fasciali legate a due elementi essenzialmente: la FUNZIONE e l’EMOZIONE.
Sempre di più appare evidente lo scambio di informazioni di due elementi che in un attimo si allineano rispetto alla motivazione e all’obiettivo funzionale.
Grazie a questo, dal punto di vista muscoloscheletrico, mettono in opera strategie sinergiche atte al raggiungimento del risultato finale: RIUSCIRE A FARE e contemporaneamente, RIUSCIRE AD ESSERE.
Gli specialisti del sistema muscoloscheletrico hanno in quest’ ottica un ruolo fondamentale; l’anamnesi, la valutazione statica e dinamica, ci raccontano già tanto del sistema, anche se talvolta c’è grande differenza tra ciò che il paziente racconta, percepisce e quanto invece il fisioterapista esperto sente sotto le mani.
Per questo la capacità clinica manuale e di osservazione si collocano tra i più importanti strumenti di valutazione dai quali partire, per poter poi trovare una strategia manuale o strumentale, per ripristinare un sistema che, per molteplici motivi, ha interrotto quel percorso armonico di funzionamento.
Ora, compito principale di chi ha tra le mani il paziente, è individuare l’articolazione che in primis ha causato un turbamento, ha rotto un’armonia e ha sfruttato strutture limitrofe per salvare temporaneamente la funzione iniziale.
Il ruolo imprescindibile di ripristino rapido di funzione è del riabilitatore esperto che traccia un percorso di riattivazione delle catene cinetiche che, in quel momento, hanno perso l’orientamento.
Dagli anni novanta abbiamo assistito a dei cambiamenti epocali”, ha continuato la Boccalandro “i nuovi farmaci avevano già permesso di effettuare i trattamenti con sicurezza, ma l’aspetto di cura del sistema muscoloscheletrico non è mai stato preso in seria considerazione e la ricaduta di carenza di fattore si manifesta soprattutto a livello delle articolazioni, tuttavia la risoluzione a tale problema per troppo tempo non è stata affrontata in modo appropriato.
Ancora di più oggi i farmaci rappresentano una POTENZA, ma non sono sufficienti a colmare quelle carenze che il sistema muscoloscheletrico manifesta nell’immediato sviluppando emartri e, a lungo termine, scompensi disfunzionali che nel tempo divengono irreversibili, creando i presupposti per articolazioni non solo completamente distrutte, ma con muscoli e fasce che non sono più grado di far funzionare quella bellissima macchina rappresentata dal nostro corpo.
Da qui l’esigenza sempre più urgente di coinvolgere in maniera attiva e costruttiva gli specialisti del muscoloscheletrico, da qui il fisioterapista, l’osteopata, avranno il compito di sorvegliare la funzionalità articolare e la forza muscolare, monitorandola con ortopedico, fisiatra e radiologo.
Infatti se le disfunzioni non vengono curate per tempo, si cronicizzano e sono irrecuperabili e l’intervento sarà necessariamente più invasivo ed invalidante.
È compito e dovere etico dei medici, capire che da soli non possono fare tutto e la ricchezza della multidisciplinarietà si scopre quando si è capaci di condividere il proprio sapere con i colleghi di altre discipline affini: è un lavoro nel lavoro.
Ma non vedo altre strade per raggiungere il benessere del paziente, non è necessario fare un elenco di specialisti per garantire la cura, bisogna imparare a lavorare allo stesso livello professionale, ognuno con le proprie competenze.
L’infermiere conosce cose che il medico o il fisioterapista non sanno minimamente affrontare e viceversa; non può esistere una gerarchia di professioni, questo ha già causato parecchi danni ai nostri pazienti.
La conoscenza e l’esperienza, nelle varie fasi di cura, vanno assolutamente integrate: questa è la nuova sfida capace di rendere un farmaco, a tutti gli effetti, una POTENZA e la cura del paziente un’eccellenza della medicina”.

Quindi alla luce di quanto detto in precedenza si evince che un aspetto estremamente importante nella valutazione di un paziente risultano la sua volontà e capacità di conoscere sé stesso?
“Prima di mandare un paziente nelle fauci dello sport e questo andrebbe fatto per tutti, ma in questo caso a maggior ragione, visto che il paziente emofilico è assoggettato a delle problematiche articolari che questa carenza di fattore lo porta ad avere, sarebbe opportuno verificare anche quell’aspetto che è quello che non solo gli permette di fare lo sport, ma prima di farlo, lo rende libero di “essere”, cioè di fare quello che desidera: una gita in montagna, uscire, correre etc.
Capire di poter “essere” e da lì nasce il desiderio di affinare, migliorare le proprie performances motorie, per cui ci si può approcciare ad uno sport.
E per questo stesso motivo è indispensabile lo sguardo di chi conosce la patologia, i deficit che provoca e ti prepara, educandoti al movimento, ad affrontare la vita in tutte le sue sfaccettature.
L’attività sportiva diviene quindi il nuovo traguardo da raggiungere poiché rappresenta la massima espressione di libertà del movimento.
In questi ventitré anni di attività sui pazienti emofilici ho assistito ad un grande e sostanziale cambiamento
Quando ho iniziato a girare l’Italia insieme al dott. Solimeno, il principale desiderio per le associazioni era quello di raccontare ai pazienti che, da quel momento, i farmaci sicuri permettevano loro di poter accedere alla chirurgia con sicurezza e per me, a latere, era possibile applicare la fisioterapia che era vista, in primis, come fisioterapia post-operatoria.
Questa combinazione è quella che ho vissuto, quando sono entrata nel mondo dell’emofilia: vedevo persone che purtroppo non avevano avuto il beneficio dei trattamenti profilattici, né sicuri, né riabilitativi, quindi pazienti con gravissimi problemi articolari e che avevano dovuto ridurre la propria “possibilità di essere” al minimo storico, per non rischiare nuovi emartri.
Quindi è stata la prima rivoluzione raccontare a tutti loro che potevano muoversi, che i bambini non dovevano più stare seduti con caschi e ginocchiere e giocare con i Lego.
Noi stavamo cambiando un paradigma, i pazienti potevano e dovevano muoversi e giocare in sicurezza, perché il farmaco fatto regolarmente permetteva loro di fare una vita diversa…li liberava dalla paura del possibile sanguinamento e dalla terribile conseguenza dell’immobilità.
Da una parte quindi i nuovi pazienti, con profilassi iniziata dai 3 anni di vita e dall’altra, pazienti degli anni ‘60/’70 che mostravano gli evidenti segni del passato.
Ma da quel momento finalmente, con l’avvento dei nuovi farmaci e con la consapevolezza acquisita dell’importanza della profilassi, (anche se molti erano e sono ancora reticenti poiché temono l’inibitore) attraverso il check-up ho sentito la necessità di raccontare loro cos’è il movimento, forse più che raccontare ho avuto il desiderio e la possibilità tecnica di far sperimentare il ripristino della mobilità liberandoli da quelle restrizioni che il dolore e la paura avevano reso ai loro occhi irreversibili.
Per questo proprio durante i controlli, non eseguivo solo la pedana stabilometrica che oggettivava il loro stato muscoloscheletrico, ma li trattavo manualmente, facevo sentire e sperimentare ad ognuno di loro la possibilità di essere ancora elastici.
Riaprivo una porta che a loro sembrava chiusa per sempre.
Quindi durante i controlli, non eseguo solo la padana, che oggettiva quello che succede nel corpo, ma li tratto facendo sentire quant’è bello essere elastici e mobili.
Da qui ho cominciato ad educare i pazienti a qualcosa che non avevano mai sperimentato prima: la bellezza del movimento.
E come facevo ad applicare il movimento su queste persone che avevano protesi e articolazioni bloccate?
Ho iniziato con una disciplina, l’idrokinesiterapia legata ancora alla fisioterapia ma che si applicava nell’acqua permettendo ai pazienti di esprimere al meglio le capacità motorie e soprattutto permettendo loro anche di migliorare le prestazioni motorie.
E questo è stato un altro passaggio: dalla fisioterapia post-operatoria ad una fisioterapia che educasse al movimento, che era possibile fare in modo sistematico, regolare durante l’anno e che permette di muoversi meglio.
Da lì, quando i pazienti non riuscivano a completare in modo eccellente il movimento e chiedevano la possibilità di farlo, il gesto fisioterapico e osteopatico che ho sempre applicato con le tecniche fasciali, hanno permesso loro di scoprire ancora di più e più velocemente questa possibilità.
Alla fine i pazienti educati sono cresciuti con questa consapevolezza, capendo l’importanza del movimento.
Di contro ci sono i nostri bambini, gli adolescenti, che non hanno avuto l’esperienza drammatica dell’emartro, del dolore notturno e a loro va un’attenzione che nasce dal fatto che i micro sanguinamenti (che a mio parere nascono da conflitti biomeccanici da quando nascono o cominciano a gattonare) necessitano di una riabilitazione preventiva che serve loro per evitare di creare quei meccanismi disfunzionali che li portano poi ad avere sì dei conflitti, degli emartri e quindi delle problematiche di movimento e di salute.
Stiamo parlando di una fisioterapia preventiva, non più solo post-operatoria, che viene fatta prima che accadano gli eventi e che permette al paziente di conoscere la struttura e le problematiche che potrebbe avere facendo determinate cose”.

Sta dicendo che la profilassi da sola non basta e quindi il monitoraggio fisioterapico e osteoterapico lo ritiene consigliabile, necessario o fondamentale?
E quanto questo è sostenuto dall’ematologo e dall’ortopedico o piuttosto non viene data importanza?
Lei con il progetto Forte ha istruito un bel gruppo di fisioterapisti, ma questo è ben recepito nei Centri di riferimento o è una battaglia per lei e per i suoi colleghi?
“Lavorando al Policlinico presso il Centro di Milano la quantità di pazienti afferenti mi ha permesso di osservare le differenti situazioni e necessità di salute.
Da anni è diventato necessario interfacciarsi in modo costruttivo con i differenti specialisti che sono coinvolti nella cura di questa patologia.
Oggi ancora di più emerge questa necessità, il ruolo non dell’ematologo solamente ma dell’equipe medica è importantissimo.
Avere un ruolo all’interno di un’equipe multidisciplinare, vuol dire che tu metti a disposizione la tua scienza agli altri colleghi, parlandone in modo semplice e facendo in modo che possano intervenire, così che il paziente sia coperto da tutti i punti di vista.
Ad es. ho appurato che nell’equipe del muscoloscheletrico oltre l’ortopedico, il fisiatra, il reumatologo, è fondamentale anche la figura dello psicologo perché, a volte, determinate situazioni ne richiedono la consulenza per affrontare problematiche di rabbia o accettazione o meno di una terapia o di un intervento.
Altrettanto importante è il ruolo del medico sportivo che garantisce ai nostri piccoli pazienti d’intraprendere percorsi sportivi anche agonistici con soddisfazione e sicurezza.
Questo è il lavoro che stiamo cercando di fare.
Purtroppo non tutti gli ematologi comprendono che l’emofilia è sì una malattia rara, ma non è solo malattia ematologica, bensì anche muscoloscheletrica legata alla carenza di un fattore.
Quindi quando parlo di potenza, faccio riferimento anche alle nostre capacità contestualizzate intorno al paziente, dove lui è al centro, ma non perché decide lui cosa fare, ma perché ha la possibilità di esprimere qualsiasi concetto, che sia articolare, ematologico, psicologico e a noi il compito di cogliere il lato più fragile per aiutarlo.
Devo metterlo nelle condizioni che il suo motore funzioni e che le ruote girino, quindi che possa utilizzare altre modalità standard di benessere, perché i limiti che hanno sono superabili.
Anche il bambino deve essere libero, libero anche dalle mamme troppo apprensive, perché loro hanno solo un deficit, ma possono essere liberi di vivere come preferiscono.
Talvolta credo non vengano affrontati certi argomenti poiché si fa fatica a comprenderli e di conseguenza non se ne parli in modo appropriato.
Resta il fatto che bisogna far innamorare i bambini delle cose che vengono loro proposte, non basta dirgli di fare attività fisica perché fa bene, devi farli appassionare di qualcosa di cui loro hanno il terrore e le mamme di più”.

Rispetto al passato quindi è stato fatto un grande lavoro, basato sulla competenza e profonda conoscenza di un gruppo multidisciplinare, ma che è ancora in evoluzione.
E poi c’è il tema della multidisciplinarietà che non è solo una parola, ma un progetto da attuare, che sappiamo non tutti i centri sono in grado di realizzare.
“La multidisciplinarietà si costruisce tutti i giorni, richiede in primis UMILTA’, ascolto e voglia di interazione più che di predominio.
Non esiste multidisciplinarietà se uno non conosce il lavoro dell’altro.
Senza l’ematologo io sarei persa, ma lui sarebbe perso senza di me.
È questa l’interazione che stiamo costruendo al Policlinico di Milano attraverso continui confronti.
La multidisciplinarietà funziona quando si rimettono in discussione tutte le oggettività del caso e si valuta anche l’accettazione o meno da parte del paziente di una terapia in atto.
Quindi cercare di risolvere non quello che noi vediamo oggettivamente se non attraverso la percezione del paziente.
È necessario far capire fino in fondo le scelte terapeutiche e il programma strategico a lungo termine affinché possano essere portate avanti con successo senza pregiudizi.
Il ruolo del paziente è fondamentale, le sue osservazioni devono essere il punto di partenza per progettare il suo percorso di cura che ormai deve tener conto di valutazioni multi-specialistiche.
Questo ho imparato e continuo a imparare sul campo”.