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NOVE TALASSEMICI DOPO 3 ANNI LIBERI DA TRASFUSIONI

Presentato, al congresso della American Society of Hematology, uno studio del Bambino Gesù sull’uso della terapia genica contro la beta talassemia. I risultati sono molto incoraggianti

Un gruppo di ricerca internazionale, coordinato dall’équipe di Franco Locatelli dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, ha appena presentato al congresso annuale della Società americana di ematologia (Ash), in corso a New Orleans, i risultati di una sperimentazione clinica sull’uso di una terapia genica per il trattamento della malattia: e sono risultati molto incoraggianti. L’89% dei pazienti che ha partecipato allo studio, infatti, non ha più avuto necessità di sottoporsi a trasfusioni del sangue per almeno tre anni e mezzo dopo la somministrazione della terapia genica.
I pazienti continueranno ora a essere monitorati nel tempo, per capire se effettivamente la terapia può considerarsi curativa in modo definitivo e per valutare l’eventuale insorgenza di effetti collaterali.

I trattamenti “tradizionali”
Al momento, l’unica terapia risolutiva per la beta talassemia è il trapianto di midollo osseo o il trapianto di cellule staminali da donatori compatibili.
Un trattamento, tra l’altro, che non sempre funziona come sperato: alcuni studi, infatti, hanno confermato che in assenza di un donatore familiare compatibile, o in età superiore ai 14 anni, i risultati della procedura spesso non sono ottimali e comportano diversi rischi.
Dal momento che la richiesta di donatori è sempre molto superiore all’offerta – si stima, per esempio, che in Italia la disponibilità di donatori compatibili si attesti intorno al 30% della richiesta – l’unica altra opzione è una terapia palliativa, basata su frequenti trasfusioni di sangue (ogni 15-20 giorni), che ha spesso degli effetti collaterali da non sottovalutare, tra cui l’accumulo di ferro, e a cui tra l’altro vanno associati dei farmaci di supporto, i cosiddetti “agenti chelanti”.

La terapia genica: il betibeglogene
Sostanzialmente, si “aggiunge” un gene alle cellule staminali difettose del sangue per correggere la mutazione che provoca la malattia. Il trattamento si chiama Beti-cel, abbreviazione di betibeglogene autotemcel, e prevede di prelevare cellule staminali dal sangue del paziente per poi aggiungere i geni corretti tramite un vettore virale; successivamente, le cellule anormali vengono eliminate mediante chemioterapia e infine si infondono le cellule corrette.
Già a gennaio scorso, uno studio clinico internazionale di fase 3, sempre a firma dello stesso gruppo che ha presentato oggi i nuovi dati, aveva mostrato l’efficacia del trattamento, evidenziando come i geni funzionali innescassero una produzione “normale” di emoglobina che durava per diversi anni.
In particolare, 20 dei 22 pazienti trattati (e 6 su 7 di quelli di età inferiore ai 12 anni) avevano potuto interrompere le trasfusioni di sangue dopo l’infusione di betibeglogene.
I nuovi risultati vanno nella stessa direzione: lo studio è riferito a 63 pazienti – il che la rende quindi la sperimentazione più grande mai condotta finora sull’applicazione di una terapia genica per il trattamento di una malattia ereditaria del sangue – e ha mostrato che l’80% dei partecipanti, per i tre anni e mezzo successivi alla sperimentazione (in media) non ha avuto bisogno di trasfusioni.
Un altro studio, condotto con l’obiettivo di monitorare la qualità della vita dei pazienti, ha mostrato miglioramenti significativi nella capacità di lavorare, andare a scuola e rimanere fisicamente attivi dopo la somministrazione della terapia genica: l’assenteismo scolastico causato dai sintomi della beta talassemia, in particolare, si è circa dimezzato dopo il trattamento.
“Il significato principale della nostra scoperta – ha spiegato Locatelli – è che la terapia genica è un’opzione terapeutica sicura, valida e potenzialmente curativa per molti dei pazienti che soffrono di beta talassemia.
E questo è evidente non solo per il fatto che la maggior parte dei pazienti non ha più avuto bisogno di trasfusioni, ma anche per il miglioramento della loro qualità di vita”.

da: “La Repubblica” dell’11 dicembre 2022