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ORIZZONTI DELLA BIOLOGIA MOLECOLARE NELLA DIAGNOSI E TERAPIA DELLE MALATTIE EMORRAGICHE

Si è tenuto a Ferrara il 4 Ottobre, organizzato dal prof. Francesco Bernardi e dal prof. Mirko Pinotti, del Dipartimento di Scienze della Vita e Biotecnologie della Università di Ferrara, il Corso “Orizzonti della biologia molecolare nella diagnosi e terapia delle malattie emorragiche”.

Il corso, come si legge nel razionale, proposto in un’unica giornata di lavori a Ferrara, dove da quarant’anni si svolge una ricerca di biologia molecolare delle malattie dell’emostasi particolarmente intensa e qualificata.

L’iniziativa si propone di fornire la formazione indispensabile alla comprensione dei progressi diagnostici e terapeutici grazie al contributo di numerosi docenti con competenze di ricerca a livello internazionale nei diversi temi.
La successione degli interventi, tenuti da qualificati ricercatori e clinici di fama internazionale, ha tenuto viva l’attenzione dei numerosi partecipanti mettendo in evidenza l’importante ruolo della biologia molecolare nel progresso per la conoscenza e la definizione diagnostica delle malattie emorragiche congenite.
La discussione si è svolta sulle basi molecolari dei fenotipi clinici, sulla predisposizione all’insorgenza di inibitori e, non ultimo, sugli sviluppi delle terapie: dai fattori ad emivita allungata agli attuali progressi della terapia genica con vettori virali modificati.

Nella prima parte della mattinata le relazioni tenute dal Prof. Giancarlo Castaman del Centro Malattie Emorragiche di Careggi (Firenze) e dal Prof. De Cristofaro del Policlinico Gemelli (Roma), hanno affrontato la parte clinica della malattia di von Willebrand e l’importanza del suo regolatore ADAMTS13.
È stata sottolineata l’importante differenza fra i sottotipi, con particolare attenzione al tipo 2B, e la possibile rivalutazione delle “vecchie” diagnosi alla luce dei risvolti terapeutici personalizzabili (aptameri BT 200 e ARC 1779).

La Dott.ssa Elisa Mancuso dell’istituto clinico Humanitas di Milano, ha ribadito sia l’importanza degli studi di farmacocinetica per l’individualizzazione della terapia sostitutiva anche in particolari momenti della vita del singolo paziente, che i progressi della terapia sostitutiva (Fattore VIII-r dissociabile dal Fattore von Willebrand circolante, al fine di prolungarne l’emivita).

La dott.ssa Chiara Biasioli del Centro Emofilia della Romagna, nel ricordare il ruolo delle associazioni dei pazienti per il contributo allo sviluppo della ricerca, ha evidenziato l’importanza delle nuove terapie “non sostitutive” nel trattamento dei pazienti con inibitore: farmaci ad emivita prolungata, efficaci al punto da essere approvati recentemente per la profilassi nell’emofilia A grave senza inibitore.

Il prof Bernardi ha presentato l’importante ruolo svolto dalle variabili genotipiche dei recettori (lectine, scavenger, LDL) coinvolti nella clearance del complesso FVIII-FvW e modificatori dell’emivita del fattore antiemofilico infuso. Il loro influsso è determinante per il futuro miglioramento dei fattori a lunga emivita e per la personalizzazione della terapia sostitutiva.

Le relazioni tenute nel pomeriggio dal prof. Mingozzi, e dai prof. Cantore e Balestra, hanno approfondito le basi molecolari della terapia genica dell’emofilia: i vettori virali adeno-associati e i lenti-virus utilizzati per il trasporto del “cassetto genetico” modificato all’interno delle cellule epatiche del paziente, la “finestra terapeutica” per ottenere l’espressione in vivo della giusta dose di fattore efficace, gli studi clinici in corso per valutarne la durata, la risposta immunitaria nell’individuo ed il suo trattamento, ed infine la “correzione del gene” per ottenere la produzione di Fattore carente dall’epatocita/endotelio.

Le relazioni finali dei Prof. Fallarino, Branchini, Spena, hanno portato l’attenzione sul ruolo degli agenti induttori coinvolti nella regolazione delle risposte immunitarie al Fattore infuso, le diverse mutazioni che causano emofilia, le cellule dendritiche del sistema immunitario e le citochine del sistema del complemento-infiammazione, ed altre componenti geniche ancora poco conosciute.

La giornata si è conclusa senza che il nostro cronista avesse la possibilità di rivolgere alcune importanti domande all’organizzatore, il prof. Francesco Bernardi.
È stata per questo organizzata dalla nostra redazione una call conference che pensiamo possa essere utile ad un’ulteriore approfondimento della importante giornata.

Prof. Bernardi, lei e il dott. Pinotti, nella presentazione della giornata, avete scritto: “Il progresso impetuoso della diagnosi e della terapia delle malattie emorragiche richiede un urgente aggiornamento delle conoscenze in diversi campi. Accanto alla indispensabile conoscenza clinica e delle sue applicazioni, emerge una necessità di comprendere come la biologia molecolare contribuisca ad una definizione diagnostica sempre più fine delle malattie.
Parimenti la disponibilità crescente di approcci di terapia sostitutiva con i fattori ad emivita allungata e di terapia genica dell’emofilia A e B possono essere considerati i successi più eclatanti della biologia molecolare integrata da numerose competenze con in evidenza lo sviluppo dei vettori e gli aspetti immunologici”.

“I partecipanti erano fortunatamente non soltanto gli addetti ai lavori ma anche un buon numero di studenti o laureandi dell’Università di Ferrara.
Hanno compreso innanzitutto il livello altissimo raggiunto dall’assistenza agli emofilici e ci riferiamo, tra coloro che conosciamo meglio, alla dottoressa Elisa Mancuso che ha illustrato tutte le nuove terapie, alla dottoressa Biasoli che ci ha parlato di come avviene il contatto e l’assistenza con il paziente emofilico e al prof. Castaman che ha fatto conoscere la malattia di von Willebrand.
Mentre per quanto riguarda la terapia genica ci sembra che siamo ancora abbastanza incerti, in considerazione del fatto che sono intervenuti non due ricercatori qualsiasi ma il dott. Alessio Cantore e il dott. Federico Mingozzi”.

A questo punto, prima delle domande specifiche, le chiedo che cosa vi abbia spinti ad organizzare questo incontro.

“L’idea di diffondere il più possibile l’informazione in questo settore tra gli addetti ai lavori comporta uno scambio di informazioni più intensa. Quando poi si va invece verso un’audience più ampia speri di intercettare il massimo dell’attenzione.
Noi abbiamo intercettato una parte non numerosa ma di qualità.
Ad esempio io ho un’opinione degli studenti e degli specializzandi estremamente alta, e l’aver “seminato” con loro è una buona semina dal punto di vista dell’informazione e del futuro.
Alcuni dei relatori poi sono ex studenti nostri e parlo in questo caso della dottoressa Caterina Casari che assieme al prof. Castaman ha parlato del von Willebrand.
Sono passati 20 anni e sono passati senza nulla chiedere e questo ci permetteva di fare un corso con costi modesti e potenzialmente fruibile da tutte le persone che avessero interesse su questo aspetto.
La spinta è quella di una persona che si avvia ai 40 anni di pubblicazioni e ogni tanto alza la testa e non guarda solo le sue cose ma anche quelle degli altri che sono bravissimi ed è qualcosa di meraviglioso dal punto di vista informativo”.

Lei, come abbiamo evidenziato, ha chiamato tre persone a livello nazionale: il prof. Castaman, e le dottoresse Mancuso e Biasoli che hanno fatto la storia della cura dell’emofilia in tre modi diversi.
Ha fatto conoscere agli studenti anche il Willebrand e ci siamo resi conto attraverso le loro spiegazioni a che livello è arrivata la cura. Mentre invece abbiamo avvertito ancora delle incertezze, del resto legittime, visto l’argomento, sugli interventi del dott. Cantore e del prof. Mingozzi. È questa l’impressione giusta?

“Il dott. Cantore ed il dott. Mingozzi sono in situazioni di lavoro molto diverse perché Mingozzi è Direttore scientifico (chief scientific officer) della Spark Therapeutics quindi con una filiera di prodotti ben delineata e con una serie di studi clinici molto intensi dei pazienti.
Mentre Cantore è il rappresentante eccellente di chi ricerca vettori alternativi ai virus adeno associati (AAV).
Li ho invitaticome due esempi eccellenti di linee di ricerca: quella clinica con gli adeno-associati è particolarmente avanzata ed è quasi in fase di cura , mentre quella preclinica dei vettori lentivirali è una proposta particolarmente interessante e promettente”.

A questo punto noi rappresentanti degli emofilici o informatori degli stessi le rivolgiamo una domanda provocatoria: con i livelli di cura raggiunti oggi, è ancora significativo andare verso la terapia genica?

“Questa è una domanda molto difficile che comporta una serie di risposte. Innanzitutto la terapia genica non è stata proposta e sperimentata in tutte le categorie di pazienti ma solo in una parte. C’è una parte di pazienti che questa terapia non l’ha sperimentata e non è stata inclusa negli studi delle diverse fasi.
Poi, la terapia sostitutiva in questi anni ha fatto dei passi da gigante per sicurezza, qualità, per tipo di somministrazione, e potrebbe avere anche uno sviluppo tale da essere più facile da realizzare. Inoltre alla SISET (il prof. Bernardi nella sua risposta fa riferimento al congresso Società Italiana per lo Studio dell’Emostasi e Trombosi che si è svolto in novembre a Firenze – n.d.R.) sono stati presentati due studi che indicano come il fattore VIII sia indispensabile non solo per l’aspetto emofilico ma potrebbe avere un effetto importante e benefico sull’endotelio e sul sistema osseo.
Questi effetti teoricamente sarebbero coperti dalla terapia genica, mentre la terapia sostitutiva non risolverebbe l’emergenza dell’inibitore che è ancora un problema fortunatamente affrontata in modo efficace dalla terapia non-sostitutiva.
Quindi benedetti questi prodotti e quelli che verranno a breve.
Però la terapia non sostitutiva lascerebbe “scoperto” il problema dei benefici potenziali fisiologici del fattore VIII.
Un altro aspetto è che la terapia genica, nel momento in cui producesse fattore VIII nelle cellule giuste -nell’endotelio da dove proviene quello naturale, – si sospetta riduca l’immunogeneticità del fattore stesso.
Di conseguenza si prospetterebbe, che la terapia genica possa essere curativa anche nei pazienti con inibitore.
Questa è una domanda di grande importanza per la terapia genica alla quale non è stata data ancora risposta in tempi recenti: è possibile che portare con un vettore la produzione del fattore VIII nelle cellule giuste possa ridurre enormemente il rischio dell’inibitore e addirittura far invertire la situazione dell’inibizione?.
Provando una visione generale della cura, è senz’altro importante offrire diverse opportunità.
C’è una preoccupazione per l’aspetto economico.
È importante in questo contesto che avvengano interazioni tra clinici, ricercatori e la parte associativa, ed in modo particolare con la parte istituzionale che è quella con cui dobbiamo fare i conti per i costi cospicui della terapia genica”.

Cambiamo la domanda o meglio, la completiamo e diventa: non dovrebbe anche nell’ipotesi di una prospettiva futura di cura genetica pensare che si debba trovare un punto di incontro? Perché siccome la genetica non lavora solo per l’emofilia ma per tante malattie rare e croniche.
Questo può essere un freno da parte delle istituzioni o può essere un incitamento a questo tipo di ricerca?

“Non sono un esperto di economia ma vedo un punto enorme di vantaggio nella compresenza di approcci diversi e della sostenibilità della terapia genica e tutti mostrano che non solo è diminuito il sanguinamento annuale ma è diminuito sostanzialmente l’impiego di fattori ricombinanti nei pazienti trattati.
Per cui si potrebbe pensare che la terapia genica ha sì un costo alto, ma a medio termine c’è un ritorno di costi. Nei paesi ricchi questo anticipo potrebbe essere compiuto perché è anche una forma di investimento, nei paesi non ricchi purtroppo non è neanche pensabile una produzione a basso prezzo dei prodotti necessari alla terapia genica.
Obiettivamente le produzioni di questi vettori hanno dei costi veramente importanti”.

A questo punto un’altra domanda a proposito dei finanziamenti per la ricerca. Dove trovate i finanziamenti?
Non certo dallo Stato italiano che stanzia il 2% del PIL per la ricerca.

“Lo Stato italiano stanzia lo stipendio dei docenti universitari e dei ricercatori ed è un punto importante. Nel sostenere la ricerca è però in difficoltà da molti anni, al limite della presa in giro in alcuni casi come quantità e sistema di erogazione.
I famosi progetti di interesse nazionale che sono quelli che noi chiamiamo “Prin” dovevano essere il sostegno della ricerca nazionale sono stati erogati un paio di volte negli ultimi anni”.

Facciamo un esempio che tra l’altro esempio non è perché sappiamo tutti che è successo di recente.
Lei ricercatore, sta lavorando e chi la finanzia, in questo caso una casa farmaceutica, guardando ai suoi interessi
Dice: lei è in quello studio e ha fatto grossi passi avanti, però io prendo su tutto e vado negli Stati Uniti perché lì guadagno di più.
Sappiamo tutti oggi chi ha definito questo atteggiamento sconcertante e soprattutto frustrante.

“Capisco questo punto di vista perché è applicabile alla nostra realtà. Io vedo la competitività di istituzioni straniere come quelle negli gli Stati Uniti, Germania etc “portarci via” i migliori. Lo vedo come qualcosa vissuta per tutta la mia vita di professore universitario. Solo dal nostro gruppo, una dozzina di ricercatori di ingegno e buona volontà che sono emigrati.
L’apertura necessaria ad assumere ricercatori stranieri di livello in modo istituzionale è difficile da sostenere, gente da fuori arriva ma dopo un po’ se ne và.
All’estero assumere un ricercatore formato da utilizzare a pieno è business vero”.

Lei ha parlato competitività. Ma la competitività favorisce la collaborazione o no?

“Nell’Università chi è competitivo collabora con altri e c’è un vantaggio reciproco.
Ad un certo livello la collaborazione con gruppi che hanno esperienza complementare alla tua è quasi obbligatorio e sono soprattutto convinto che sia altrettanto importante scegliersi i ricercatori con i quali collaborare”.

Siamo convinti che sul concetto della collaborazione, del resto molto importante, come quello della sana competizione, faccia crescere. Siamo più che mai convinti che bisogna lavorare su questo concetto, divulgarlo, parlarne, perché esiste questa sorta di luogo comune che è tipicamente italiano sul fatto di lavorare sempre a schema chiuso e di non essere aperti agli altri e quindi dobbiamo dirlo che non è così e lei ce lo sta dimostrando con la sua iniziativa e con questo nostro colloquio che si conclude a nostro parere, proprio con questo concetto.