Apriamo con l’argomento talassemia.
La ricerca della terapia genica e la nascita di un laboratorio finanziato dalle associazioni di pazienti.
A FERRARA UN LABORATORIO PER LA RICERCA SULLA TALASSEMIA
In dicembre un incontro organizzato dall’Associazione Veneta Lotta alla Talassemia e dal Centro di Biotecnologie dell’Università di Ferrara, sul tema: “Volontariato e biotecnologie: un laboratorio per la ricerca sulla talassemia”.
Le due relazioni ufficiali tenute dal prof. Roberto Gambari, Direttore del Centro di Biotecnologie dell’Università di Ferrara, sul tema “Farmacogenomica e sviluppo di molecole utili per la terapia della talassemia” e dal dott. Stefano Rivella, del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York, sul tema “Terapia genica della beta talassemia con vettori lentivirali”.
Il prof. Vullo ha ricordato come qualche decina di anni fa i pazienti talassemici sperassero di ricevere la cura dal cielo e da medici, nel caso migliore.
“Oggi – ha affermato – sono diventati responsabili della loro vita, fanno programmi, si organizzano e sono in grado di raccogliere somme per finanziare la ricerca come sta succedendo ad esempio tra Ferrara e Rovigo.
In questo caso, si permetterà al prof. Gambari ed al Laboratorio che dirige, di lavorare per diversi anni ad un programma a lungo termine e quindi ad un’evoluzione di questa ricerca”.
È il mondo universitario della ricerca quindi che in questo caso risponde alle richieste delle associazioni.
“Anche l’assistenza stessa ai pazienti, ne sono sicuro, trarrà benefici dalla ricerca, come è successo fino ad ora”.
Il dott. Zago ha evidenziato l’importanza del volontariato nella società di oggi e, per quanto riguarda la ricerca scientifica, il ruolo che essa svolge a fianco dello Stato che non è sempre in grado di intervenire.
Riferendosi alla sua associazione, ne ha fatto una breve storia sottolineando che “la svolta per noi è avventa all’inizio degli anni ’90 quando abbiamo capito che dovevamo intervenire nel campo della ricerca scientifica”.
Ed a proposito di questa iniziativa ha continuato: “Un laboratorio tra i pochi in Italia che dispone già di un gruppo di ricercatori, che ha attivato collaborazioni internazionali, che si sta sviluppando e che dovrà sempre più svilupparsi con nuove partnership e sponsorizzazioni, che devono consentire di aumentare il numero di ricercatori in esso adoperanti”.
Il prof. Gambari ha parlato dello sviluppo di nuove molecole:
“Nel Centro di Biotecnologie dell’Università di Ferrara – ha detto – è stato, tra le altre iniziative, attivato un servizio di sequenziamento del DNA che ci consente in tempi rapidi e precisi di identificare le mutazioni all’interno di specifiche regioni del genoma dei pazienti affetti da malattie geniche come la talassemia. Avremo sperimentazioni avanzate utilizzando strumentazioni che ci permetteranno di ottenere una “impronta digitale molecolare”.
In futuro si parlerà sempre più di terapia personalizzata, il che necessita della conoscenza delle precise mutazioni. Tutto questo può avvenire grazie all’apporto delle Associazioni di Rovigo e di Ferrara. In questa struttura abbiamo giovani laureati con borse di studio, che matureranno e potranno essere in futuro i nuovi ricercatori. Un primo obiettivo sarà quello di sviluppare metodi rapidi per identificare molecole di interesse terapeutico.
Per questo abbiamo contattato e già stiamo lavorando con case farmaceutiche, in quanto il prodotto di una ricerca non ha futuro se non c’è un interesse applicativo da parte dell’industria.
Nel nostro caso l’interesse dell’Università di Ferrara (che in questa sede è stato ribadito dalla presenza e dall’intervento del Rettore prof. Conconi – n.d.R.), che da tempo finanzia l’acquisto di strumentazioni fornite al Centro di Biotecnologie è molto rilevante. Io sono un ricercatore e lavoro nell’ambito dell’identificazione di molecole, nel nostro caso, in grado di indurre l’emoglobina fetale in talassemici adulti.
Ovviamente, se la mia ricerca è buona, essa deve essere pubblicata ma non brevettata non è però appetibile da parte delle case farmaceutiche.
Per quanto riguarda il rapporto con altri collaboratori, abbiamo una collaborazione internazionale con il prof. Eitan Fibach (Dipartimento di Ematologia, Hadassali university Hospital, Jerusalem, Israele) e con il prof. Pierluigi Listi (ETA, Zurigo).
Infine, abbiamo da tempo attivato una collaborazione con il Servizio di Diagnostica della genetica medica dell’Università di Ferrara, che sarà allargata alla caratterizzazione molecolare di altre mutazioni genetiche.
Tale caratterizzazione può essere eseguita con tutta tranquillità se vogliamo caratterizzare la patologia nell’adulto, ma deve essere eseguita con grande rapidità ed efficienza se è fatta a livello prenatale.
Per quanto riguarda le ricerche applicate allo sviluppo di terapie farmacologiche della talassemia, quello che noi stiamo facendo non è un’alternativa alla terapia genica, anche se potrebbe portare ad una serie di interventi basati su strategie alternative.
Partiamo da una base scientifica che prevede di studiare la regolazione dell’espressione dei geni per le globine; in seguito passiamo ad una fase applicativa presso il nostro laboratorio che prevede l’utilizzo del metodo Fibach allo scopo di studiare e valorizzare molecole in grado di attivare l’espressione dei geni per la globina fetale, saggiandole su cellule normali”.
Tornando poi a temi di più stretta attualità, sempre nello stesso numero e sempre sulla talassemia, Siro Brigiano presidente della Fondazione Futuro senza Talassemia si è chiesto:
MA…VALE LA PENA FARE LO SQUID?
La stragrande maggioranza dei ragazzi talassemici non si sa dare una risposta e se poi va a chiedere ai propri referenti medici, non sempre, ma spesso la risposta è la seguente, laconica ed ultimativa: “Lo Squid non serve a niente”.
Ed a fare simili affermazioni non sono soltanto i cosidetti disinformati di professione, ma anche chi dovrebbe avere acquisito un tale bagaglio di conoscenze da essere opportunamente informato.
A noi sembra tanto di rivivere l’antica e sempre nuova favola della “Volpe e l’uva”. Come molti di voi sapranno (noi speriamo tutti ormai – n.d.R.), lo Squid consiste in una metodica non invasiva che permette di valutare con estrema precisione l’accumulo di ferro nel fegato.
Mi sembra di sentire tanti di voi: “Ebbene, dopo che so che ho un certo accumulo di ferro nel fegato, che faccio?”. Bella domanda! Proverò a dare una possibile risposta.
C’è un ragazzo, uno come tanti di voi che da anni “viaggiava”, come suol dirsi, con una ferritina tra 1500 e 2000. Si è sempre rigorosamente chelato ed il quadro clinico risulta più che soddisfacente. Ha raggiunto i dieci anni di vita e nulla lascia sospettare in lui, per l’aspetto esteriore, la patologia talassemica. Insomma, uno dei tanti ragazzi affetti da questa malattia, ben curati sotto ogni aspetto.
A gennaio i medici che lo hanno in cura decidono di mandarlo a Torino dal dott. Antonio Piga per un esame Squid, appunto.
In Europa esistono soltanto due apparecchiature di quel tipo, ad Amburgo e, da pochi mesi (molto più moderna) al “Regina Margherita” di Torino. La visita di rito conferma nel ragazzo il quadro ottimale che già si conosceva, ma un’accurata e rigorosa lettura Squid rivela un accumulo di ferro superiore a 4000. Non vi sto a raccontare la sorpresa e della famiglia ed anche il momento di sconforto di fronte a questa nuova e inaspettata realtà.
La situazione è ancora più preoccupante, al pensiero di quanti anni fossero passati prima di questa scoperta.
Il dott. Piga è stato, come sempre, estremamente professionale e per prima cosa ha cercato di tranquillizzare la famiglia, prospettando tutta una serie di interventi per aggredire con più efficacia l’accumulo di ferro. La moderna terapia di chelazione offre un’ampia gamma di modulazione d’intervento e nuove possibilità, completamente ignorate da questa famiglia che pure si riteneva bene informata, sono a disposizione dei medici che viaggiano, come suol dirsi, con “una marcia in più” e non si adagiano sugli allori.
Tutti sappiamo che di talassemia non si muore più, ma delle patologie connesse alla malattia. L’accumulo di ferro e le sue dirette conseguenze, sono la reale causa di morte. Oggi possiamo dire a ragione che esistono mezzi e metodiche efficaci per combattere l’accumulo di questo metallo. È finita l’epoca in cui il talassemico considerava se stesso come un condannato senza appello. Tutto questo fa parte del passato, basta accedere, come è diritto di ognuno, al meglio che la medicina mette a disposizione. Il ragazzo che abbiamo preso ad esempio ha iniziato subito con la nuova modulazione d’attacco al ferro e già i primi dati della sideruria confermano l’efficacia delle metodiche.
Tra sei mesi tornerà a Torino per una verifica, ma ormai i segnali positivi sono evidenti.
IL FUTURO DELLA TERAPIA GENICA E LA TALASSEMIA
Il dott. Stefano Rivella che lavora presso il Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York, ha detto che la terapia genica si può definire come un settore della medicina che utilizza tecniche di biologia molecolare in grado di modificare in modo altamente specifico il DNA, materiale genetico delle cellule.
Affrontando il tema specifico che più ci riguarda ha detto: “Per quanto riguarda la talassemia, oggetto della nostra sperimentazione, dobbiamo per prima cosa conoscere bene la biologia delle cellule che vogliamo trattare. Nel caso di questa patologia, vogliamo che il gene “curativo” sia espresso nelle cellule del sangue e che la globina sia espressa solo nelle cellule che daranno origine agli eritrociti. Uno schema tipico per un protocollo di trattamento può essere così riassunto: da un paziente preleviamo le cellule del midollo, inserendo quindi all’esterno del paziente stesso il vettore che contiene il gene della beta globina. Questo intervento si può quindi definire “ex vivo”, in quanto eseguito fuori dal corpo del paziente.
Dopodiché, le cellule vengono reinfuse nel paziente stesso, trattato in modo che possa accettare bene queste cellule. In questo caso la “operazione” viene definita come un “trapianto autolofo”, da non confondere con quello che oggi, per guarire dalla talassemia è detto trapianto di midollo.
Che differenza c’è fra i due casi?
Nel primo si deve cercare un donatore compatibile, in questo caso invece, le cellule sono le stesse, modificate appositamente, dello stesso paziente, eliminando così il problema del rigetto. Lo scopo del lavoro di questi ultimi quattro anni del Memorial Institute, è stato appunto, quello di generare vettori virali in grado di trasmettere fedelmente il gene della beta globina umana e di esprimerlo in maniera “tessuto-specifica” e ad alti livelli.
In questi anni abbiamo utilizzato modelli animali ed abbiamo verificato in vitro i primi risultati.
Ho parlato di “retrovirus” così definito perché è capace in qualche modo di inserire se stesso nella cellula bersaglio “infettandola” e quindi nel nostro caso, portandosi appresso il messaggio genetico e “curativo”. Il virus che abbiamo utilizzato per le nostre ricerche è della famiglia dei retrovirus, chiamata “lentivirus” e vogliamo innanzitutto che sia in grado di integrare il gene curativo nelle cellule bersaglio, in secondo luogo che sia in grado di “infettare” le cellule che si riproducono e si replicano lentamente. Ora non tutti i virus sono in grado di infettarle così lentamente ed avere una porzione consistente di DNA tale da esprimere in maniera efficiente la globina.
Il “lentivirus” sembra essere quello più efficace al nostro scopo.
Quali sono le cellule bersaglio che devono essere infettate da questo virus allo scopo di produrre la globina dando quindi origine a cellule del sangue “curate”?
Il nostro obiettivo è inserirlo in progenitori eritroidi, cellule “madri” di tutte le altre che produrranno emoglobina, restando nel corpo per qualche anno. Avremo così una produzione costante di eritrociti “curati” dall’intervento di terapia genica”.
Il dott. Rivella poi è passato alla descrizione specifica del lavoro che si sta facendo presso il Centro in cui lavora.
“Quando ho iniziato a lavorare con Michael Sadelein, lui aveva creato un vettore retrovirale che possiamo definire di prima generazione, nel quale aveva inserito il gene della globina, costatando (era il1995) che il vettore esprimeva il gene “curativo” meglio dei precedenti usati. Tuttavia, questo non era il gene “curativo”. Nel nostro laboratorio abbiamo circa 600 “pazienti”, topolini sui quali abbiamo eseguito una sorta di trapianto inserendo il virus nelle cellule staminali ematopoietiche.
Cosa abbiamo scoperto?
Sia dopo 12 giorni che dopo 22 settimane dal trapianto, abbiamo rilevato un’espressione dell’emoglobina prodotta dal gene “curativo” parti al 15% dell’emoglobina totale.
I risultati dimostrano che si può ottenere una buona espressione ed un buon livello del gene della beta globina umana nelle cellule di topo, e questo suggerisce che l’intervento di terapia genica potrebbe essere efficace nella cura delle emoglobinopatie gravi.
Oggi stiamo cercando di studiare gli effetti terapeutici di vettori retrovirali in modelli animali affetti da beta talassemia major, cercando di infettare cellule umane in vitro, analizzando il livello di espressione del nuovo gene introdotto risetto al gene della emoglobina totale. I risultati dimostrano che si può ottenere una buona espressione ed un buon livello del gene della beta globina umana nelle cellule di topo, e questo suggerisce che l’intervento di terapia genica potrebbe essere efficace nella cura delle emoglobinopatie gravi.
Oggi stiamo cercando di studiare gli effetti terapeutici di vettori retrovirali in modelli animali affetti da beta talassemia major, cercando di infettare cellule umane in vitro, analizzando il livello di espressione del nuovo gene introdotto rispetto al gene della beta globina endogena per capire se questa strategia sperimentale si può applicare all’uomo.
Io sono ottimista”.
Con il numero di aprile riprendiamo a parlare dell’ormai annoso problema dell’indennizzo
TRE SENTENZE RIAPRONO I TERMINI DELLE DOMANDE PER LA LEGGE SULL’INDENNIZZO
Tutti sanno ormai come si è conclusa per molti; non è stato concesso l’indennizzo perché la domanda è stata presentata fuori dai termini di legge, contenuti in tre anni per l’epatite C.
Tutto ciò è equivalso a prescrivere il “reato” di procurata epidemia in appena tre anni.
Pur non essendo giuristi, non risulta che ci siano reati prescrivibili in un tempo così breve, se non quello di bancarotta fraudolenta, per la quale non si ammala nessuno e nessuno perde la vita.
Ebbene, questo reato incruento viene prescritto in 15 anni. Tutta questa premessa per dirvi, cari lettori, che c’è una giustizia anche per coloro che non hanno ottenuto l’indennizzo a causa della ritardata presentazione della domanda.
In questa sentenza di appello il ricorso del Ministero viene rigettato, dando ragione al giudizio di 1° grado del Pretore di Livorno.
Il dispositivo di questa sentenza dice così: “Dal pari priva di pregio è la censura al secondo motivo del gravame. Ed invero, anteriormente all’entrata in vigore della legge 25/7/1997 n. 238, il cui art. 1 comma 9 ha sostituito il comma 1 dell’art. 3 della legge 25/2/1992 n. 210 non era fissato, con riferimento alle epatiti post-trasfusionali, alcun termine perentorio per la presentazione della domanda (dicembre 1995) nessuna decadenza avrebbe potuto dirsi verificata ai sensi dei commi 1 e 7 del sopradetto articolo 3. Ne consegue che l’appello deve essere respinto.
La terza sentenza è stata emessa dal Tribunale di Livorno in data 17/11/2000.
“Parimenti infondata deve reputarsi l’eccezione di tardività della domanda amministrativa per essere la stessa stata presentata oltre il termine triennale previsto dall’art. 3, comma 1 della Legge 210/92. Il predetto termine, infatti non è applicabile alla domanda del ricorrente, presentata in data 23/3/1995, essendo stato introdotto per le epatiti post-trasfusionali solo con l’entrata in vigore della legge 25/7/1997 n.238, il ci art. 1 comma 9, ha modificato la precedente formulazione dell’art. 3 comma 1, della legge 210/92, che non prevede alcun termine perentorio per la patologia lamentata dal ricorrente”.
Se vi prendete la briga di leggere il testo della legge 238, troverete la nota che dice che il comma 9 sostituisce il comma 1 dell’art. 3 della legge 210/92 e nel testo del comma 9 non c’è scritto un bel niente, annullando di fatto quanto disposto precedentemente dalla legge 210/92.
A questo punto però una riflessione si impone: intanto non sono le tre sentenze che hanno annullato i termini, ma una legge, la 238 del 1997, che di fatto li ha cancellati.
Semmai le sentenze hanno evidenziato una realtà giuridica già esistente e che nessuno aveva ancora notatoNé noi che siamo giuristi, che fior fiore di avvocati che da anni si occupano di queste cose.
Ed ora, che fare?
A nostro modesto parere, tutti coloro ai quali è stata respinta la domanda per decorrenza dei termini e per i quali non sono ancora trascorsi 30 giorni per il ricorso, lo facciano subito, citando le sentenze e soprattutto l’art. 1 comma 9 della legge 238, che ha cancellato il termine di tre anni, non fissando, nei fatti, alcun termine. Per tutti coloro per i quali sono trascorsi i 30 giorni per il ricorso, consigliamo di ripresentare la domanda, secondo quanto previsto oggi dalle procedure.
Recandosi cioè presso gli uffici delle ASL competenti per territorio e chiedendo di ottenere la documentazione per la presentazione della domanda.
Infine, puntualizziamo un aspetto che non riguarda i termini, ma la valutazione del danno, con riferimento alla possibilità di ricorso. A parere di valenti giuristi è fattibile il ricorso fondato sulla “qualificata conoscenza del danno epatico”, che secondo la prevalente dottrina medico-legale e le attuali conoscenze immunotrasfusionali, non si poteva avere prendendo visione unicamente di test anti HCV di prima generazione (1990/1991) e seconda generazione (fino ad aprile 1992 e in certe realtà anche oltre).
I test infatti di prima generazione avevano una sensibilità dell’80%, evidenziando un 20% di falsi negativi, persone cioè contagiate, ma non indennizzabili perché il test li reputava, erroneamente, sane. I test di seconda generazione avevano una sensibilità del 90%, lasciando fuori un 10% di falsi negativi. I test odierni raggiungono il 100% di sensibilità. Alla luce di tutto ciò, sarebbe possibile ricorrere in tutti quei casi in cui il danno non è stato riconosciuto e chiedendo nel ricorso di rivalutare il caso utilizzando i test di terza generazione.
Non bastasse l’ancor viva preoccupazione per le infezioni degli anni 80, si affaccia un altro pericolo e ne parliamo ancora in aprile.
EMOFILICI PREOCCUPATI DA: MORBO DELLA MUCCA PAZZA E DALLA MANCANZA DI RICOMBINANTI
Da un paio di anni si parla della così detta malattia di Creutzefeld-Jakob o “morbo della mucca pazza” ed i conseguenti ultimi provvedimenti legati alla sospensione di tutti i donatori di sangue che abbiano soggiornato per un periodo superiore a sei mesi nel Regno Unito (Inghilterra).
Il secondo, di strettissima attualità è l’improvvisa mancanza di due prodotti di Fattore VIII ricombinante che stanno costringendo molti emofilici che erano passati da tre anni a questi prodotti, di ritornare all’emoderivato.
L’allarme “mucca pazza”, soprattutto per coloro che hanno vissuto la tragedia HIV, ha fatto sì che i medici, le associazioni ed anche il nostro giornale, siano continuamente interpellati da pazienti spaventati e comunque che necessitano di notizie rassicuranti e chiare. Qualcuno è arrivato addirittura a collegare la conseguente carenza di prodotto con lo stesso problema della mucca pazza.
Per cercare appunto di fare chiarezza useremo per primo un documento della World Federation of Haemophilia.
Poi un’intervista al dott. Alessandro Gringeri del Centro Emofilia di Milano e membro dell’AICE, l’Associazione Italiana dei Centri per l’Emofilia. La WFH ha avviato una “task-force” sull’argomento per procurare ai propri membri e alla comunità emofilica un’informazione attendibile e tempestiva.
La stessa fornirà anche un’analisi e un’interpretazione con l’obiettivo di aiutare i membri della comunità emofilica a capire le varie questioni e quindi raggiungere decisioni “meglio ponderate”.
Intanto però si prendeva in considerazione una pubblicazione della rivista “Lancet” che affermava quanto segue: “Sugli studi eseguiti in questi ultimi cinque/sei anni, non si è identificato nessun episodio di trasmissione nei trasfusi con sangue od a colore che usufruiscono dei prodotti plasmatici. Gli operatori della sanità pubblica sono più fiduciosi che il rischio di trasmissione non esista, almeno con questa forma di encefalopatia”.
Abbiamo posto la domanda al dott. Alessandro Gringeri che ci ha così risposto:
“Non ci sono prove che il sangue possa trasmettere la così detta nuova variante della mucca pazza.
Tanto è vero che nessuno dei casi inglesi aveva subito trasfusioni di sangue. Non dimentichiamo poi che questa malattia esiste da vent’anni e quindi se ci fossero stati casi di incubazione probabilmente ne saremmo a conoscenza.
Alcuni giudicano eccessivi i provvedimenti di sospensione dei donatori che hanno soggiornato per più di sei mesi in Inghilterra, ma per prudenza bisognava farlo”.
Dott. Gringeri, come lei ben sa che è “esploso un altro problema e cioè la mancanza di alcuni prodotti ricombinanti.
Il Comunicato dell’A.I.C.E. spedito a tutti i Centri di cura, è stato visto dai pazienti come una sconfitta che dà un senso di impotenza e di insicurezza per le parole contenute nel comitato stesso.
“La mancanza di prodotto nasce dal fatto che il Fattore VIII così come il fattore IX, non sono fattori di sintesi, cioè sintetici, ma prodotti biologici altamente sofisticati che necessitano di controlli dovuti e necessari per far sì che il prodotto finale sia di altissima qualità. Naturalmente più controlli si fanno più problemi si possono avere.
Durante un singolo passaggio della lavorazione c’è stata una non rispondenza ai criteri normali, venendo meno a quello standard di purezza che ci si era imposti.Questa situazione però non ha niente a che vedere con i prioni della mucca pazza.Quanto durerà questa situazione?Fino a quando non sarà risolto il problema.Ci sono tempi burocratici oltre che tecnici.
Le linee guida che abbiamo stabilito come A.I.C.E. servono proprio per fare in modo che ad altre categorie di pazienti siano garantite forniture di ricombinante. Parliamo dei bambini più piccoli o comunque coloro che hanno sempre fatto soltanto il ricombinante.Parliamo sempre degli emofilici “A” e cioè che usano il Fattore VIII, perché per gli emofilici “B” e cioè coloro che usano il fattore IX il problema non esiste.
La consolazione e la tranquillità comunque la possiamo avere oggi dagli emoderivati che hanno raggiunto un grado di sicurezza estremamente elevato; non abbiamo infezioni da almeno tredici anni.
Lei ha espresso con rammarico il suo pensiero su quelli che erano i progetti per il ricombinante per tutti. Alla luce di questa situazione cosa ci può rispondere?
“Intanto dobbiamo dire che in Italia non abbiamo commesso l’errore di puntare su un unico prodotto. L’obiettivo del ricombinante per tutti lo dobbiamo rimandare di diversi anni. Le case farmaceutiche ci rispondono che lo avremo entro i prossimi cinque anni. Inoltre, prima di parlare di sconfitta, vorrei ribadire quanta sicurezza oggi ci sia per i prodotti emoderivati, ma vorrei anche fare una considerazione.
Noi così detti paesi ricchi non ci rendiamo conto, ma dovremmo farlo, che questa carenza di ricombinante farà sì che molti pazienti del terzo mondo non abbiano più neppure l’emoderivato. Loro stanno passando da un prodotto, al niente…”.
XI CONFERENZA INTERNAZIONALE SULLA CHELAZIONE ORALE NEL TRATTAMENTO DELLA TALASSEMIA
“Può il Deferiprone causare la fibrosi epatica progressiva?”
Il relatore ha cercato di dare una risposta attraverso uno studio su 56 pazienti svolto in diverse Università e Aziende Ospedaliere in Italia e nel mondo.
Il dottor Schwartz ha affermato che non si sono trovati, usando il Deferiprone, casi di fibrosi epatica, sia in pazienti HCV positivi che HCV negativi. Concludendo il suo intervento ha affermato: “Questa è una prova medica chiara che dimostra come il Deferiprone L1 non causi fibrosi epatiche progressive”.
La dott.ssa Wonk ha illustrato uno studio che dimostra come il deposito e la distribuzione del ferro in ciascun organo del corpo sia oggi ancora scarsamente compreso.
“Se vogliamo incrementare ulteriormente la vita ed il miglioramento dei nostri pazienti – ha detto – dobbiamo garantire l’adattamento migliore al trattamento chelante. Il nostro Centro ha studiato per lungo tempo gli effetti protettivi del Deferiprone (L1), confrontandolo con il Desferal sottocutaneo. Abbiamo notato che il Deferiprone ha un effetto protettivo così buono, se non migliore, del trattamento standard raccomandato con il Desferal. Il Desferal per via endovenosa può risolvere con un rapido miglioramento la funzione cardiaca, ma la rimozione totale del ferro in quest’organo è un processo lento, che richiede parecchi anni di trattamento.
Pensiamo che questo processo potrebbe essere abbreviato con il trattamento combinato tra Desferal sottocutaneo e Deferiprone orale giornalieri. Non abbiamo inoltre riscontrato effetti collaterali associati con il trattamento Desferal endovena. Quando la diminuzione del ferro diventa una realtà per tutti e l’uso del chelante orale accettato più decisamente, scompariranno i casi di morte causati da deposito di ferro cardiaco nei pazienti talassemici”.
In contrapposizione a quanto detto dalla dottoressa Wonk ed anche a conferma della terapia chelante pensiamo sia importante citare le parole del dottor Antonio Piga del Centro per la Talassemia presso il Dipartimento di Pediatria dell’Università di Torino che ha trattato il tema: “La gestione della terapia chelante del ferro” parlando dell’uso della terapia chelante ha ribadito come debba essere eseguita da personale altamente specializzato.
Ha inoltre affermato che: “Il Desferal rimane il farmaco di prima scelta per la chelazione del ferro e la sua lenta somministrazione sottocutanea è il miglior modo di procedere. Nel caso vi siano problemi di compliance, allora c’è l’alternativa rappresentata dal Deferiprone che a mio parere resta farmaco di seconda scelta per pazienti non in grado di usare la cura standard. Gli effetti poi e la tossicità possono essere controllati con uno stretto monitoraggio”.
Anche il prof. Grady del Weill Medical College of Cornell University di New York, trattando il tema: “Aspetti metabolici della combinazione Deferiprone e Desferal”, ha affermato come dai loro studi risulti che il Deferiprone è un’alternativa importante al Desferal per alcuni pazienti, ma si può raggiungere una sinergia se i due farmaci sono combinati in modo appropriato e si potranno mettere tutti i pazienti in bilancio di ferro negativo.
Sono trattati con Deferiprone da 12 anni senza interruzione.
“Dei 9 pazienti trattati – ha detto – solo una donna di 31 anni ha ceduto per una crisi cardiaca alla ventesima settimana di gravidanza e dopo la sospensione della chelazione per un anno. Degli altri, sei usano Deferiprone e tre Desferal più Deferiprone”.
Il dott. Vincenzo De Sanctis il quale, ha trattato il tema del raffronto fra crescita e chelazione.
“Recentemente – ha concluso – è stato notato un giovamento sulle ossa dei pazienti che prima e durante la pubertà si sono sottoposti ad una terapia chelante regolare e continua”.
Ma è nostro interesse fare chiarezza, soprattutto sulla attuale situazione nel nostro Paese.
Già perché quello che si è colto nell’ambito del fuori convegno è un gran desiderio da parte del paziente talassemico, di capire bene che cosa sia meglio per lui, in termini di qualità di vita. Come giustamente ha evidenziato la professoressa Wonk, dando prova di rara e sincera compressione del problema, “dobbiamo preoccuparci della qualità della vita, più che delle curve di sopravvivenza, perché questi ragazzi vogliono crescere, sposarsi, avere figli, avere una vita”.
Abbiamo incontrato medici allarmati per la carenza di sangue in Sicilia e altri che invece nella stessa isola non hanno questo problema. Medici e associazioni che chiedono alle autorità locali e alle aziende un’autonomia maggiore e la creazione di centri che si occupino solo dell’assistenza a questi pazienti.
Abbiamo incontrato persone determinate a vivere con pienezza la propria vita, e anche se spesso la timidezza le induce al silenzio. Siamo certi che ci sia in loro una grande determinatezza nell’esigere, da parte di chi si prende cura della loro salute, chiarezza e assistenza adeguata.
Il che vuol dire che dovrà essere preparato un nuovo protocollo in cui alla luce dei dati positivi emersi dall’11a Conferenza Internazionale sulla Chelazione orale, si dia ampio spazio alla possibilità di uso del farmaco Deferiproneda parte del paziente. Tenendo sempre presente che ogni paziente è uno, unico e irripetibile e che alla coscienza e competenza del proprio medico sarà data la decisione di usare il farmaco ritenuto migliore per lui.
VINCENZO RUSSO SERDOZ: NEL SUO ESEMPIO IL NOSTRO FUTURO
Il mese di giugno sarà per noi di Ravenna ed anche, lo speriamo, per coloro che hanno conosciuto ed apprezzato il suo lavoro, il momento del ricordo di Vincenzo Russo Serdoz.
È stato voluto da chi organizza l’incontro di Pisa dal titolo: “Noi, per l’emofilia n. 1” per la consegna del terzo premio a lui dedicato in favore di persone che si sono distinte, nel volontariato, nel campo dell’emofilia.
Ricordare quindi in questo modo Vincenzo, il “suo” giornale ed una vita dedicata alla lotta contro l’emofilia, ci sembra un messaggio non rivolto al passato ma soprattutto al futuro, per tutti noi che continuiamo la sua operazione e guardiamo appunto verso quel futuro che lui continuava a raccontare tanti anni fa esattamente come sta avvenendo. È sufficiente leggere quanto pubblichiamo ad ogni numero per capire che il suo messaggio è valido oggi come lo fu ventisei anni fa quando fondò questo giornale. Ed è altrettanto significativo che un’azienda scelga questo suo momento di incontro per riproporre quel “Premio” che ha voluto per ricordarlo. Per chi, come noi, ha continuato questa sorta di dialogo con i pazienti, con le istituzioni e di informazione sulle problematiche della malattia, sulle leggi e sull’inserimento nella società, non è un guardarsi indietro, non lo è mai stato.
Questa che leggete non vuole essere un’auto-celebrazione ma una verifica concreta del rapporto privilegiato che c’è con tutti coloro che del nostro giornale hanno fatto una sorta di “bandiera” per rivendicare il proprio diritto ad esistere e non soltanto emofilici, perché il nostro messaggio, come potete leggere ad ogni numero, è rivolto anche ad altri che trovano regolarmente spazio “alla pari”, raccontando e misurandosi con il quotidiano. Chi vi parla ha vissuto ogni momento di questa nostra storia: dai dubbi iniziali, all’euforia dei primi concentrati, alle leggi in nostro favore, ai terribili momenti legati alle infezioni. Ci sono stati, come del resto succede anche nella vita di tutti i giorni, momenti di incertezza, ma mai è venuta meno la speranza o la voglia di battersi e se oggi siamo qui ancora una volta, prendendo a pretesto l’incontro di Pisa, parlando della collaborazione con un’Azienda senza il cui apporto non avremmo potuto fare questo lungo percorso così importante ed utile, lo facciamo nella consapevolezza di un futuro.
“Noi per l’emofilia”…è un titolo che ci piace perché ripropone e concretizza proprio gli obiettivi che ci si era prefissi nel 1974, progettando con Vincenzo ed altri “pionieri”, questa testata informativa che oggi collabora con la Federazione delle Associazioni Emofiliche presentate al simposio con i suoi dirigenti e le sue iniziative come il “Progetto PUER” o il “Progetto SPRINT”.
E quella di Vincenzo è una presenza ancora viva che vogliamo ribadire in conclusione con le parole di un editoriale di qualche anno fa: “Vincenzo è presente in ciò che facciamo, nelle lettere che riceviamo, in quella voglia di lavorare con serenità ed anche con quel pizzico di grinta che ci ha inculcato in anni di battaglie e di speranze…il tutto sintetizzato in una sola parola: vita!”.
È stato lui il protagonista di questo incontro colloquiale. Cosa in cui Vincenzo Russo Serdoz era maestro. E su questo percorso, da cui lui si è allontanato otto anni fa, è stato concepito un premio biennale, istituito dalla stessa Casa Farmaceutica che ha organizzato questo incontro in sua memoria, consistente in un assegno di 10 milioni e assegnato quest’anno a Isabella Moavero in riconoscimento della sua attività di volontariato serio e costante culminati con la realizzazione del “Progetto PUER” del quale è una delle anime assieme al suo ideatore Alessandro Marchello.
Un progetto attualmente proteso alla promozione e crescita insieme delle famiglie con piccoli emofilici.
Credo comunque che la risorsa più grande risieda nel progetto di avvicinamento e scambio tra di esse e che sicuramente aiuterà in futuro molte persone a cambiare atteggiamento nei confronti della malattia.
Penso infatti soprattutto a quelle famiglie che non si vedono mai, a quei bambini cui non è fato di vivere, ma solo di sopravvivere.
UN’INIZIATIVA DELL’ASSOCIAZIONE DI RAVENNA: IL MARCHIO DEL NOSTRO GIORNALE NELLE MAGLIETTE DELLA PALLAVOLO
Un gruppo di giovani appartenenti al gruppo sportivo “Quintet” hanno pubblicizzato le nostre iniziative nei campi di pallavolo della provincia di Ravenna.
In settembre, dobbiamo ancora una volta constatare che i politici italiani, soprattutto quando parlano del volontariato, non sanno ciò che dicono (ammesso che lo sappiano anche quando fanno il loro mestiere.
In questo caso non un ministro qualsiasi ma quello della Sanità. Il titolo dell’editoriale firmato dal Direttore è eloquente:
“IL MINISTRO DELLA SANITÀ NON SA COSA DICE QUANDO PARLA DEL VOLONTARIATO”
Il nostro direttore nei suoi consueti viaggi attraverso il Paese per incontrare le associazioni dei pazienti deve constatare tutto questo.
Domenica 30 settembre a Catania e poi ancora, lunedì 1 ottobre a Siracusa, mercoledì 3 ottobre a Gela. Intensa partecipazione e discussione con all’ordine del giorno vari argomenti, dalla cura, ai Centri, alle leggi sull’indennizzo, alle cause per i risarcimenti. Poi, qualcuno di noi sfoglia un quotidiano e legge che il Ministro della Sanità, rivolgendosi a Genova, alle associazioni di volontariato, “spara nel mucchio” attraverso esternazioni che non possono essere accettate.
Riprendiamo alcune frasi, quelle che più ci hanno fatto indignare:
1)“… il volontariato è diventato uno strumento nelle mani della politica”.
2)“C’è una fondamentale confusione nel mondo del volontariato. L’ultimo disastro è stato la nascita delle ONLUS”.
3)“Avete scarsa imprenditorialità e trasparenza con la tendenza a nascondere i difetti”.
4)“Cercate di non chiedere aiuti perché non ne avete bisogno”.
Un primo commento a questo blocco di frasi buttate in faccia alla gente è venuto a caldo persino dall’ex Ministro della Sanità Rosy Bindi che ha detto:“Sirchia non conosce a fondo il mondo del volontariato perché ha un’esperienza limitata nel settore; non è infatti la prima volta che parla di imprenditorialità piuttosto che di professionalità o forza di volontà”. E se lo dice lei che durante il suo mandato ha fatto di tutto e di più per mettere i bastoni fra le ruote dei nostri ingranaggi!…
A proposito dell’essere strumento nelle mani della politica, qualcuno ha ricordato che in Italia il volontariato è soggetto politico fondamentale per la programmazione e la gestione dello stato sociale. In quanto poi a non chiedere aiuti, “…tanto non verranno concessi”, vorremmo chiedere al Ministro quali sono stati fino ad ora gli aiuti che lo Stato ha dato a favore delle associazioni di volontariato.
Ha detto però anche una verità, in tante stupidaggini, e questo bisogna riconoscerglielo: “…dovete esprimere una rappresentatività che superi le divisioni interne e che permetta di presentarvi all’esterno in modo autorevole”.
Anche qui però ha “sparato nel mucchio” mentre avrebbe dovuto fare dei distinguo.
Vorremmo invitare il prof. Sirchia a partecipare qualche volta, anche agli incontri delle nostre piccole realtà associative, quelle per intenderci che sono di nostra competenza, per rendersi conto quanto le sue parole abbiano fatto male a persone che nulla chiedono e che non hanno neppure la forza di una risposta, perché non hanno tempo di polemizzare. Tanto meno che chiedere soldi.
Noi diamo, semplicemente, senza chiedere!…a quello Stato che prima dice di difendere i nostri diritti e poi, nel concreto, dà mandato ai suoi legali di combatterci contro le nostre legittime richieste?
Signor Ministro si rilegga i numeri di tutti coloro che operano in silenzio senza proclami o vada nelle sedi delle piccole associazioni e non soltanto nei concessi più importanti.
Nessuno le dà diritto, nemmeno la sua carica o la sua esperienza di medico, a generalizzare attraverso giudizi pretestuosi e disinformati che non fotografano nella maniera più assoluta le realtà di tutto il volontariato nel nostro Paese ed il ruolo insostituibile che svolge.
EMOFILIA DALLA A ALLA Z
Sempre in settembre abbiamo pubblicato un libro scritto da una mamma sull’emofilia. Un modo del tutto nuovo ed originale in collaborazione con un professionista che cura i ragazzi emofilici.
I loro nomi sono Brianna Gargallo e Raffaele Landolfi.
Per coloro che non l’avessero incontrata almeno una volta dirò di lei che è l’energica e volitiva mamma di tre bambini. Dalla sua personale esperienza è nato un libro: “L’emofilia dalla A alla Z” che lei stessa ha dedicato ai suoi “tre gioielli”.
“È un libro scritto dalla madre di un bambino emofilico che ha saputo reagire positivamente ad una diagnosi inattesa, ha collaborato in maniera efficace con i medici e trasmette il suo approccio fattivo ed ottimistico alla propria famiglia ed ai genitori degli altri bambini”.
Non ci sarebbe molto da aggiungere alla prefazione del libro, curata dal prof. Raffaele Landolfi dell’Università Cattolica “Sacro Cuore” di Roma, che ne è anche il supervisore per le argomentazioni scientifiche, se non che il pregio del testo è tutto espresso nella capacità dell’autrice di informare con sapiente leggerezza. Lungi dall’essere un manuale per il fai-da-te, il testo trasmette piuttosto l’attivismo di una mamma che invita la famiglia a trovare l’equilibrio necessario per lavorare in sinergia con chi si occupa della terapia perché il bimbo: “…mangerà, crescerà, andrà all’asilo e a scuola, parteciperà agli sport che vorrà, lavorerà, si sposerà e potrà avere figli.
Dopo aver superato lo shock iniziale della diagnosi; scoprirete quanto un bambino emofilico possa essere uguale ai suoi coetanei e nello stesso tempo speciale. Sarà anche importante “rimboccarsi le maniche” per affrontare questo “ostacolo emofilia” e per allontanare lo stato di paura e tristezza.
Si dice che le donne, in particolare le madri di famiglia, siano dotate di una grande forza interiore che le rende capaci di affrontare la vita nel bene e nel male. Per il bene vostro e della famiglia, tirate fuori quella forza. Lasciate adeguato spazio ai vostri sentimenti, specialmente nel periodo successivo alla diagnosi e tutte le volte che ne sentite il bisogno, ma entrate nella mentalità che tutto può essere affrontato. Non posso negare di aver passato dei momenti difficili; ma quale famiglia non deve affrontare dei problemi? Ho dovuto affrontare, oltre alle emorragie muscolari di mio figlio, anche tutto ciò che comporta la scomparsa di un inibitore in un bambino di poco più di un anno.
Ho cercato sempre di vedere oltre queste piccole grandi prove e la ricompensa è stata enorme”.
“DA SEMPRE IL NOSTRO GIORNALE SI OCCUPA ATTENTAMENTE DELLE NOTIZIE CHE VENGONO DAL MONDO DELLA RICERCA, SOPRATTUTTO LA RICERCA LEGATA ALLE COSIDDETTE MALATTIE GENTICHE RARE”.
In apertura di novembre, in un ennesimo articolo del nostro direttore, prendendo lo spunto da parole come: “cellule staminali”, sangue da cordone ombelicale”, “terapia genica”, si prendeva in considerazione il grande 0,6% del Prodotto Interno Lordo (PIL) dedicato appunto alla ricerca per titolare:
“I FINANZIAMENTI PER LA RICERCA SCIENTIFICA, QUESTI SCONOSCIUTI”
Ricordando come nel nostro Paese esistano ben 5000 malattie genetiche per le quali non c’è cura si prendeva in esame l’operato in proposito dei governi e quali le prospettive future. Per capire quanto fa questo Governo o gli altri che lo hanno preceduto è necessaria una premessa indirettamente legata all’attuale Governo attraverso una notizia diffusa circa un mese fa.
Lo Stato Italiano taglierà i fondi per la ricerca scientifica che già era dello 0,6% del Prodotto Interno Lordo (PIL), uno dei fanalini di coda nel contesto delle nazioni cosidette più industrializzate.
Il prof. Silvio Garattini, in una recente dichiarazione, ha così commentato: “…i Governi, di qualsiasi natura e colore, non ritengono strategica la ricerca. Perché se la ritenessero importante farebbero gli stessi sforzi che hanno fatto e stanno facendo per assicurare una maggiore sicurezza al Paese. Siamo ridotti in pratica al rango di semplici consumatori e concessionari di prodotti che compriamo dagli altri.
Eppure, nel campo biomedico, ad esempio, non possiamo continuare ad essere parassiti e godere delle scoperte degli altri”.
A questo punto potremmo raccontare quali sono le tante criticate (dal Ministro della Sanità) associazioni di volontariato che si impegnano, ognuna in un diverso settore e con diverse iniziative, con finanziamenti raccolti attraverso manifestazioni o sensibilizzazione dell’opinione pubblica.
Dalle più grandi: Telethon, AIRC, “Trenta ore per la vita” ed altre, fino alle più piccole che fanno pasrte dei gruppi di patologie alle quali noi ci rivolgiamo come: La Fondazione “Leonardo Giambrone”, la Fondazione “Futuro senza Talassemia”, la Fondazione “Filippo Collerone”, o semplici associazioni come quella di Rovigo che in collaborazione con il Centro di Biotecnologie dell’Università di Ferrara ha costruito un “Laboratorio di ricerca sulla terapia farmacologica e genica della talassemia”.
Briciole in un mare di necessità, soprattutto in attesa di qualcosa che gli scienziati promettono ma che non possono ottenere a “mani vuote”, cioè senza gli strumenti che permetterebbero loro di vincere molte di queste battaglie per la vita.
La vignetta di questo articolo è una delle tante che ci ha mandato un nostro collaboratore piemontese di nome Mino Maiorano. È il nostro modo per ricordarlo con grande nostalgia.
Ancora in novembre abbiamo ripreso con un servizio dal nostro corrispondente al Ciocco, l’incontro finale del Progetto PUER con il titolo:
PROGETTATA E REALIZZATA UNA ESPERIENZA RIPETIBILE
Quando a Firenze, due anni fa, partì il “Progetto PUER”, ci colpì la frase di Max Fish che faceva da prefazione:
“Un uomo ha fatto un’esperienza.
Ora si sforza di crearne la storia.
Non si può vivere indefinitamente
con una esperienza che non è una storia.
Spesso mi è accaduto di immaginare
che un altro avesse la storia
di cui avevo bisogno per la mia esperienza”.
Sembrava, a prima lettura, soltanto una bella frase, ma le mancava il “piedistallo” affinché potesse reggersi.
La scommessa dei giovani neo eletti responsabili della Federazione sembrava molto difficile, sommersi da altre richieste da parte di quasi tutte le associazioni nazionali spinte dai propri associati, coinvolti nelle cause e negli indennizzi. Non era facile organizzare in tutto il territorio nazionale una serie i incontri che aggregassero tante famiglie.
Il 17 novembre al Ciocco, l’incontro che faceva da riassunto degli incontri svolti in questi due anni, ci ha fatto capire, dopo i numerosi incontri ai quali avevamo partecipato, che il gruppo composto dalle formatrici aveva lavorato in modo fantastico ed aveva trovato anche un “terreno” molto fertile.
“Perché lo facciamo” recitava uno degli obiettivi: “i genitori, che spesso nel Centro Emofilia di riferimento trovano una valida assistenza ma solo sul versante medico-terapeutico, manifestano la necessità di una funzione d’appoggio capace di sostituirli nelle difficoltà che devono affrontare a partire dal momento della diagnosi”.
Altri punti fermi erano:
“Gli obiettivi”.
- raccolta delle aspettative delle famiglie
- sensibilizzare i genitori sulla necessità di essere attivi nel volontariato nel campo dell’emofilia, per svolgere un’azione rivolta sia all’interno sia all’esterno
- costruire una salda rete di riferimento per gli altri giovani genitori che si troveranno ad affrontare gli stessi problemi
Il progetto era stato diviso in cinque fasi in conclusione dell’ultima, una convention finale in occasione del Congresso Triennale dell’Emofilia che si svolgerà a Milano nel 2002.
Sono partiti autonomamente 7 gruppi che coprono quasi interamente l’intero territorio nazionale.
Complessivamente si sono realizzati 30 incontri in tutte le aeree (con una media di tre o quattro incontri all’anno), ai quali hanno partecipato più di 100 famiglie (e continuamente se ne aggiungono di nuove). Le formatrici coinvolte sono sei. Le aree geografiche che hanno partecipato sono: Lombardia, Sicilia, Lazio, Campania, Toscana, Emilia-Romagna, Umbria, Piemonte, Liguria, Valle D’Aosta, Veneto, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Sardegna.
Dice Alessandra Tartarelli, coordinatrice nazionale: “Si trattava per tutti di trovare il proprio significato nello stare insieme ma anche di scoprire attraverso il contributo di tutti, le strade da percorrere. Il territorio era quello dell’esperienza comune, dei bambini, del trattamento, del rapporto con i medici…con se stessi. Il territorio era la vita di tutti i giorni in una famiglia con un problema, reale, concreto, definito. Altri genitori dovrebbero provare a riunirsi e a scoprire cosa è utile e possibile costruire insieme.
Questa è una nuova idea. Questo è un nuovo progetto.
L’esperienza ci ha reso più forti e quindi le inevitabili difficoltà, anche organizzative, saranno affrontate con maggiore sicurezza. Anche i bambini hanno partecipato agli incontri. Non con i genitori ma in uno spazio attrezzato con i giochi, merenda e qualche amico o nonna come animatore. E i genitori? Non sono mai andati a controllare”..