In questo periodo si vedono i primi segni di una riconciliazione con i vertici della Fondazione Nazionale dell’Emofilia.
Intanto nel numero di apertura il nostro direttore responsabile chiarisce alcuni concetti per noi irrinunciabili.
Riportiamo un passo dove si chiarisce che:
Non vogliamo più essere spettatori passivi della nostra vita, ma testimoni attivi del nostro tempo, del nostro futuro e questo nei convegni, nelle piazze, nelle assemblee, nei comitati di gestione delle USL, nelle commissioni sanità e servizi sociali, dal più piccolo paese fino a Roma.
E chi avrà la pazienza di leggere questa piccola nostra storia si renderà conto che abbiamo mantenuto ciò che abbiamo promesso.
Proprio nello spirito di questi propositi, nell’articolo di spalla della prima pagina dal titolo: Alimentiamo la speranza concedendo spazio e fiducia ai giovani si legge:
…e vogliamo, nonostante tutto, partire con la speranza nel domani; ce lo chiedono soprattutto i giovani e per questo riportiamo due interventi nel primo numero dell’anno che vengono sì da due situazioni diametralmente opposte, ma che hanno in comune richieste vitali: ci chiedono di non vergognarci di loro e di aiutarli in questa volontà di inserimento, rifiutando categoricamente l’assistenzialismo.
Sono i giovani talassemici della Lega e quelli della Comunità di San Patrignano.
Per i giovani talassemici, come per gli emofilici e gli oncologici poi ci sarà grande spazio all’incontro di Rimini del prossimo mese di aprile; una tribuna dove potranno esporre le loro aspirazioni ed i loro progetti per il futuro.
Il discorso su San Patrignano, invece, e teniamo a precisarlo non vuole essere né un intervento “perché è di moda parlarne” né perché vogliamo occuparci “anche” di droga; semplicemente vuole essere una serie di testimonianze senza nessun giudizio, per far conoscere un’altra realtà sui giovani che spesso sono alla ricerca di affetti o valori che noi adulti, distolti dai nostri problemi quotidiani, spesso colpevolmente, non siamo in grado di dare a loro.
Parole come “handicappato” o “drogato” oggi molto spesso abusate e pronunciate o con tono distaccato o peggio, con tono di compassionevole disprezzo, le rifiutiamo; ma rifiutiamo soprattutto l’immobilismo delle istituzioni dello Stato che in queste situazioni si adagiano, non solo, ma che pretendono di giudicare altre istituzioni, quelle del volontariato su cui pesa il maggior fardello nel tentativo di recupero di tanti guasti in tutti i settori della vita sociale.
Se qualcuno avesse dei dubbi sulla linea che EX seguirà in questo 1985 ed in tutti gli anni a venire ora avrà le idee chiare e saprà regolarsi di conseguenza.
Con questo non rinneghiamo l’amore su cui si imperniano tutte le nostre azioni; c’è spazio inoltre per tutti coloro che chiedono equità e giustizia.
Anche in marzo, nel riassumere il contenuto del giornale, ci soffermammo sui giovani.
I giovani: il nostro futuro, la nostra ricchezza
…Alle volte, il mio vivere è come il ghiaccio, vorrei un po’ di indipendenza, di sicurezza…
È una ragazza di 18 anni che ci scrive una lettera in cui racchiude tutta la sua voglia di vivere, di conoscere, di uscire da quell’emarginazione fatta anche di “pendolarismo della salute”.
Ci fa sapere che è viva. Con tutti i problemi di ogni giorno legati alla malattia, ma è viva.
Ecco la costante presenza dei giovani sul nostro foglio, ed è quello che cercavamo, che vogliamo da sempre.
La sua lettera, che si legge in seconda pagina, ci permette di continuare quel dialogo aperto in questo 1985 e che stiamo portando avanti attraverso gli scritti, ma anche con una presenza fisica sempre più numerosa ai nostri convegni.
Il problema di questa giovane si chiama afibrinogenemia congenita, ma si chiama anche solitudine, poche possibilità di confronto, di dialogo. Ci racconta un piccolo stralcio della sua vita e poi ci dice fra l’altro: “…Non so se questo mio scritto potrà essere una ricchezza per EX….”
Una ricchezza lo è sicuramente, soprattutto per tutti coloro che vogliono vivere come lei senza subire la malattia e farne un motivo di incontro, di dialogo.
Volgiamoci un attimo indietro seguendo a ritroso la strada percorsa in questi anni, il lavoro svolto, e fermiamoci a riflettere sulla frase di questa giovane che si chiede se le sue parole saranno per noi una ricchezza.
Noi le rispondiamo che la sua è anche la nostra più grande vittoria. Oggi, insieme, anche con lei, non siamo più soli; parliamo, viviamo, agiamo e non solo per noi, ma per gli altri, aiutando coloro che si fermano, e insieme percorriamo quella strada che porta a un orizzonte non più racchiuso fra mura di vergogna e di paura.
Maggio si apre con un editoriale dedicato al convegno nazionale di tutte le associazioni che rappresentano gli emopatici; dai talassemici, agli emofilici ai leucemici.
Rimini, 27-28 aprile: emerge una volta di più l’importanza delle Federazioni
Dopo tre anni ci ritroviamo di nuovo.
Come nel 1982, siamo venuti da tutte le parti d’Italia, dal Piemonte alla Sicilia, dalla Sardegna alle Venezie. Allora stava per cominciare l’inverno, tempo grigio con qualche squarcio di sereno. Oggi siamo a metà primavera, ancora fredda, ma luminosa. Allora le previsioni erano: “brutto con tendenza a variabile”, oggi dicono: “variabile con ampie schiarite”.
Volti noti, ma anche molti volti nuovi, sempre tutti insieme separatamente a cercare una soluzione ai numerosi problemi degli emofilici, talassemici e oncologici. In questi tre anni abbiamo perso qualche compagno, ma ne abbiamo trovati tanti altri; ci siamo fatti qualche nemico – era inevitabile – ma abbiamo trovato anche molti amici.
Durante i due giorni del convegno abbiamo sentito nelle relazioni tecniche parole di speranza, di umanità, di comprensione, di disponibilità. Mi ha colpito l’osservazione della presidente dell’AGEOP: “I genitori sono una terapia aggiuntiva”. Bisogna metterci la speranza. Ma ci sono state anche parole di timore.
Abbiamo sentito dalle associazioni i risultati ottenuti, gli ostacoli incontrati, le delusioni subite, i progetti studiati. È venuta prepotentemente alla luce la necessità di federarsi per lavorare sempre meglio e sempre più insieme e separatamente.
Abbiamo sentito il caldo e affettuoso saluto del Presidente della Repubblica, la parola umana e cristiana del Vescovo, gli interventi dei rappresentanti del Parlamento, della regione, del comune. Mi è venuto allora in mente (maligno – siamo in tempo di elezioni – il sonetto di Guerrini, quello intitolato Un bon amigh (Un buon amico):
A l’incontar è dé elezion,
sto birbo, e um ferma d’vol com’un usell,
um dmanda se stà ben è mi burdell
e quant ch’i m’ha prumess d’è furminton;
e dis ch’um vò paghé da fe clazion,
e dis ch’l’è un bon amigh, e int’è piò bell
um’imbroia cun tanti marachell
ch’um’ fa vuté par Zisaren Raspon.
Stamatena a l’ho vest ch’l’era piantè
da la Dugana in t’é su solit post
cun quatar sgnur, e mé a l’ho saluté.
E pu a i’ho dett: – i’el dal nutizi in piazza? –
Lò us’è cazzé i’ucciel e pu um ha arspost:
– Coss’é? Chi vi conosce voi, ficiazza? –
Per i non romagnoli vediamo la versione italiana:
Lo incontro il giorno delle elezioni,
questo birbante, mi ferma al volo come un uccello,
mi chiede se sta bene mio figlio
e quanto mi hanno promesso del granoturco;
e dice che mi vuol pagare la colazione,
dice che è un buon amico, e nel più bello
mi imbroglia con tante marachelle
per farmi votare per Cesare Rasponi (nobile dell’800).
Stamattina l’ho visto che era fermo
alla Dogana, suo solito posto,
con quattro signori, e io l’ho salutato.
Poi gli ho detto: “ci sono delle notizie in piazza?”
Lui si è infilato gli occhiali e poi mi ha risposto:
“Cosa? Chi vi conosce a voi, gentaglia?”.
Ma poi ho guardato negli occhi quei politici, li ho visti uomini come noi, interessati, commossi, e mi sono detto: “Molti altri saranno sordi e grigi, ma questi no”.
Se domani andrò da loro, sono sicuro che nessuno mi dirà: Coss’é? Chi vi conosce a voi, ficiazza?”.
Bruno Serdoz, da tutti noi chiamato zio, in questo servizio è stato cattivo profeta, lui che comunque è sempre stato fiducioso. I fatti poi purtroppo gli daranno clamorosamente torto.
Sempre in maggio, in occasione del rinnovo dell’Esecutivo della Fondazione dell’Emofilia, pubblichiamo due articoli dei responsabili della neo sorta Associazione Emofilici Italiani. I titoli sono:
All’insegna di un nuovo spirito unitario
Per favorire la riconciliazione e con l’augurio sincero di buon lavoro
Il nostro direttore responsabile si serve di una prefazione.
“A mano a mano che il bambino cresce, il mondo che lo circonda e le persone che in questo mondo interagiscono, gli insegnano il valore e il significato dell’amore. In una prima fase, ciò può significare che, quando lui piange o strilla perché ha fame, perché si sente solo, perché si sente afflitto fisicamente o psicologicamente, le sue proteste determinano una risposta: ossia l’intervento di qualcuno che lo nutre, sicché non sarà più solo; che eliminerà la causa della sua afflizione, per cui tornerà a sentirsi a suo agio. Sono queste le prime interazioni che gli consentono di identificarsi con un altro essere vivente.”
Molti leggendo questa prefazione si chiederanno cosa ho voluto dire, cosa ho cercato di fare capire; alcuni capiranno e comprenderanno, altri faranno finta di non capire; ma tutto questo non ha importanza perché nello stesso momento in cui vi ho offerto con amore questa convinzione, mi sono reso vulnerabile di fronte a tutti; ma questa mia vulnerabilità è l’unica cosa di cui vi posso, con amore, fare dono.
Ma nonostante questa ulteriore premessa che chiarifica ulteriormente il mio pensiero è giusto per quanti mi sono stati sinceramente vicini e lo sono tutt’ora anche pagando di persona, che io dica perché non sono presente a Brescia durante i lavori dell’Assemblea della Fondazione dell’Emofilia.
Potrei dire, e sarebbe la verità, che avevo un impegno importante, che la mia presenza seppur modesta avrebbe aiutato dei bimbi, dei giovani ad essere compresi e avrebbe rafforzato l’opera sconosciuta di un’associazione che da anni lavora a favore dei talassemici.
È la verità, ma nello stesso tempo non è tutta la verità.
Potrei allora dire che ho voluto lasciare quanti mi sono amici, liberi nella scelta del voto, senza che la mia presenza creasse imbarazzo o peggio ragioni di ingiustificate polemiche che non avrebbero aiutato chi veramente desidera lavorare, operare e dare; che entrando nel Comitato della Fondazione dell’Emofilia potrà dare con il suo generoso e disinteressato contributo un apporto positivo e concreto. Potrei anche dire, e sarebbe anche questa la verità, che le dolorose calunnie ricevute potrebbero non rendermi sereno e potrebbero impedirmi di ascoltare chi mi parla, potrei perciò non udire la sua gioia e il suo dolore, potrei di conseguenza non udire e di conseguenza non amare, rischierei di non essere utile.
Ho letto ultimamente che Albert Schwaizer ha ripetutamente dichiarato che, sino a quando fosse esistito un singolo individuo che soffriva di fame, solitudine, angoscia o malattia, egli si sarebbe sentito responsabile nei confronti di quest’uomo.
Sono rimasto colpito da questo ed ho capito che se avessi dato retta al mio orgoglio, se avessi risposto alle sottili calunnie avrei perso questa mia responsabilità nei confronti del mio prossimo, non avrei amato e non sarei stato riamato; e poiché io voglio con molta umiltà tentare di sfamare chi ha fame, non fare sentire chi è solo dividendo con lui la sua solitudine, alleviare la malattia di chi soffre ben più profondamente di me; per questa somma di ragioni non ho presenziato all’Assemblea della Fondazione.
Perché le persone presenti e coloro che le hanno delegate sappiano che per un profondo atto d’amore, verso tutti, amici e no, ho deciso di non prestarmi a meschini giochi di potere per essere presente umilmente con chi è afflitto fisicamente e psicologicamente sia esso emofilico, oncologico o talassemico; per potere continuare ad ascoltare chi mi parla, e nell’udire la sua gioia e anche il suo dolore, amare soprattutto chi non mi ama. E questa è la verità.
In giugno uno speciale sul convegno di Rimini organizzato dalla Federazione delle Associazioni emofiliche, talassemiche e oncologiche dell’Emilia Romagna al quale partecipano tutti i maggiori rappresentanti in campo nazionale. Il titolo del nostro servizio è: Per una visione ed un’azione unitaria sui problemi medici e sociali. Una due giorni intensa durante la quale si parla di diagnosi di emofilia, di Piano Nazionale Sangue, del problema delle infezioni, del ruolo delle associazioni di volontariato. Il servizio del nostro inviato si conclude con queste parole:
Seguire l’ammalato non significa semplicemente accompagnarlo, discutere con il medico, vuol dire farsi carico della sua patologia ed essere investiti anche delle problematiche di tutti gli altri.
Nel numero di luglio un lungo servizio sulla relazione del prof. Peyretti, direttore della Banca del Sangue e del Plasma di Torino, sul costo del sangue e del donatore e da Ferrara una relazione sui problemi della talassemia inerenti proprio alla donazione del sangue
Agosto vede una relazione del dott. Bernardi, dell’Istituto di Chimica Biologica universitaria di Ferrara, sull’impiego delle tecniche di ingegneria genetica nello studio dell’emofilia.
Nello stesso mese un articolo firmato dal prof. Vullo e dalla dott.ssa Di Palma sulla splenectomia nella talassemia.
Il nostro direttore responsabile continua la sua rubrica di Appunti di viaggio…nel pianeta AIDS, nella quale racconta sensazioni provate a un convegno sul tema, tenutosi a Torino.
La nostra preoccupazione in questi due giorni di incontri, relazioni, discussioni, esposizioni, è stata quella di ricercare lo sviluppo e la possibile soluzione dei gravissimi problemi di ordine morale sorti su questa realtà vera e cruda.
Si viaggia ancora con troppe incertezze
Mentre da una parte i relatori si sforzavano di mettere in evidenza l’importanza dei dosaggi dell’anticorpo anti HTLV III sui donatori di sangue, dall’altra parte arrivavano notizie che tali dosaggi non erano poi così specifici…
Da una parte si facevano proposte, concrete, di scrinare i donatori per la ricerca dell’anticorpo anti HTLV III e contemporaneamente dall’altra parte si affermava, con non minor vigore, che il rischio trasfusionale non era poi così elevato e questo con dati e cifre significative.
Mentre chi in Italia, come asserisce la relatrice dell’Istituto Superiore di Sanità con termini complessi ed espositivi ma ahimè senza indicazione reale e vera, deve prendere misure per la prevenzione non sa, o dice di non avere dati e mezzi finanziari, per l’impostazione di un programma di prevenzione; negli altri paesi, vedi Stati Uniti, fanno addirittura il controllo nel plasma depositato nelle banche del sangue.
Mentre da un lato si eccedeva (ma perché poi?) nel salvaguardare la integrità sociale e morale, giustamente, dell’individuo donatore, non sapendo se chiedere o meno l’autorizzazione per fargli la ricerca dell’anticorpo…forse per paura di perderlo, correndo però l’eventuale rischio di dare ad un ricevente il virus…, negli altri Stati la popolazione a rischio non viene utilizzata per la donazione del sangue, salvaguardando giustamente il ricevente.
In tutte queste indecisioni, e contrasti, di opinioni sul da farsi, c’è stato chi candidamente ci ha messo in guardia contro i pericoli e i rischi (visto che l’AIDS in Italia e in Europa è comparso in ritardo) di queste discussioni che non concludono; ma nello stesso tempo ci ha detto, sempre molto tranquillamente, che dato che sono avanti di 5 anni rispetto a noi, potranno darci (questa era la sostanza del dire) del plasma DOC (d’origine controllata come i vini d’autore pregiati). E quindi la morale è chiara, dobbiamo darci da fare, subito alla svelta per non perdere tempo prezioso e per cercare, finalmente, ora che siamo sulla dirittura d’arrivo del Piano sangue e plasma nazionale, di varare questa benedetta legge in modo da smettere di dipendere pesantemente dall’estero per l’importazione di emoderivati; altrimenti se non risolveremo questo problema non ci sarà più niente da fare perché di fronte a del plasma DOC quello “nostrano” seppur ruspante non darà garanzia e noi fra 20 anni saremo ancora a discutere sull’articolo 13 o 9 della Legge sul Piano segue…
Il viaggio sul pianeta AIDS sta finendo e d’altronde il pullman su cui stavamo procedeva troppo in fretta perché noi “laici” si potesse cogliere appieno le sfumature suggestive dei numeri e delle diapositive…
Non perdiamo di vista il valore della vita
Uscendo poi fuori dal Convegno non si aveva ben chiaro, anche se i riflettori ci abbagliavano e arrostivano in contemporanea, se quel tanto decantato metodo ELISA era efficace “tanto utile è..”. Ma noi a scusante di quanto abbiamo responsabilmente scritto parliamo, sempre, di persone che vivono, gioiscono e muoiono; mentre sotto quei riflettori freddi abbiamo visto diapositive, abbiamo sentito parlare di numeri, abbiamo intravisto statistiche, non abbiamo però trovato quell’amore verso il nostro prossimo che muove, da millenni, tutte le cose e che in fondo in fondo permette a questo piccolo foglio vi vivere da 12 anni in mezzo a bufere, tormente, silenzi e pianeta AIDS.
Allora mi sovviene quanto dettomi da una persona che mi è cara e che comprende profondamente le nostre ansie.
È una massima russa che nasce dal profondo delle loro immense steppe dove l’uomo a contatto della natura vive concretamente la sua realtà.
“La nostra forza è la loro paura, e la nostra paura è la loro forza.”
Ma noi proprio perché seguiamo la persona conosciamo l’amore e questa, con serenità, è la nostra vera forza perché l’amore verso il nostro prossimo e la fiducia nel futuro ci impedisce di averne paura.
L’apertura di settembre, firmata Vincenzo Russo Serdoz, diventa per noi quasi un documento di vita vissuta, sofferta e donata a tutti da parte di chi sente la morte dentro di sé, ma che comunque combatterebbe con tutte le forze soprattutto per donare una testimonianza e tramandarla a coloro che verranno.
E questo noi oggi, negli anni 2000, stiamo facendo con nostalgia ma anche con la determinazione che quelle parole ci hanno dato.
Sapore di pane…sapore di vita…e pregherò che il tempo guarisca le ferite…le vostre ed anche le mie…
Io ho mangiato pane e olio e ho assaporato sotto i denti la crosta del pane, che nella mia giovinezza, per timore di emorragie, non potevo mangiare e di conseguenza, sentire; e sono stato felice perché ho potuto, nel ricordo, ritornare bambino con la mente; perché ho avuto la possibilità di ricordare, andando indietro nel tempo, che allora, anche allora, speravo, in futuro, di poterlo fare.
Ho ricordato con quanto poco vivevo allora, ma quanto mi arricchiva quel poco…
Ho capito che se è vero che un niente basta ad affliggerci è anche vero che un niente basta, però, a consolarci.
Ho visto quanto sia importante che noi si dia testimonianza di noi stessi, di me stesso. Con amore sempre. Ho ricordato, mentre assaporavo pane e olio, tutto questo e ho cercato di incidere, con la lama del tempo, questo “momento” e ho deciso di aspettare, fiducioso, la primavera che “nonostante” tutto viene sempre a ricordarci che la vita vince. Sempre. Nonostante tutto.
Ho imparato a conoscere, anche attraverso la mia sofferenza, quella passata fatta da notti insonni e quella di oggi per chi troppe volte manca, il valore profondo del tempo; ho apprezzato il valore del ricordo, la dolcezza di potere gustare questi momenti, irripetibili, che danno valore alla vita perché mi fanno sperare nel futuro; perché mi danno la forza di attendere la primavera.
Ma a sera qualcuno di noi manca…
Ho pensato allora che dobbiamo cercare di vivere nel ricordo degli altri e che questo ricordo deve essere lievemente accarezzato, deve essere delicatamente disegnato come se fosse un sogno: con gli occhi socchiusi, quasi per paura di perderlo…poi si può anche morire con gioia.
Ma poi ho mangiato pane e olio e ho potuto assaporare, nel ricordo, quei “momenti” in cui speravo di poterlo fare.
Ho visto allora la “fantasia” di chi cercava, e tuttora lo fa, con questa di vincere le difficoltà fisiche e di chi sempre con questa riusciva a superare la materia fredda e a dare con amore quello che un apparecchio non poteva capire.
Ho capito allora che il ricordo è anche il riposo di noi stessi, perché così possiamo confrontarci; il momento dolce dove possiamo ritornare ad essere quello che siamo ma che non sempre vogliamo o possiamo.
La nostra fanciullezza, la nostra innocenza, la nostra vulnerabilità.
Io ho mangiato pane e olio come in un “rito” e ho visto con il cuore quello che gli occhi non potevano vedere. Ho sentito allora il mutare del tempo e delle stagioni e ha visto l’ansia dei miei fratelli e le loro preghiere e, con molta umiltà, ho pregato con loro, per loro.
E per questa somma di ricordi sono uscito dalla morsa che mi inchiodava a terra e ho alzato gli occhi al cielo – come facevo sempre da bambino – e ho toccato, con fede, le stelle che mi chiamavano.
Ho dato testimonianza di questo, sto cercando tuttora di dare testimonianza di tutto questo…
Ho sentito la profonda lacerazione delle ferite, di quelle vecchie che si stavano attenuando nel tempo, cicatrizzandosi e di quelle nuove ben più profonde e dolorose.
Ho sperato che il tempo le potesse rimarginare e prego perché questo possa avvenire, come per il passato. Poi…nonostante tutto, ho mangiato pane e sale e per questo, nel ricordo di questo, ho continuato a vivere e a morire anche con chi spesso ci manca…
E nel ricordo di questo antico rito, del pane e del sale, sto stringendo forte fra le mie braccia la vita.
E con la stessa intensità con cui vivo questo ricordo desidero ora regalarlo a voi.
Non è la conclusione del 1985 ma preferiamo terminare con questo documento che conclude invece un ciclo del nostro giornale. Ora, superata la fase dell’inesperienza, possiamo permetterci di entrare in quello della professionalità.
Dieci anni di gavetta, documentati con lo speciale uscito nel 1984, ci hanno fatti conoscere e soprattutto apprezzare. Ora siamo maggiorenni e pronti anche per un’impostazione grafica e un linguaggio diversi.