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UNA NUOVA PROSPETTIVA PER L’EMOFILIA – intervista alla dott.ssa Follenzi

I nostri lettori hanno conosciuto Antonia Follenzi qualche anno fa (vedere la nostra intervista del mese di marzo del 2010 alle pagine 6/11 – n.d.R.), quando era appena tornata dagli Stati Uniti.
Una seconda intervista in cui parlva della collaborazione con un Consorzio e di un progetto definito “Progetto HemAcure” (vedere EX di gennaio 2018 alle pagine 8 e 9, – n.d.R.). Ci parlò anche di un premio vinto con una casa farmaceutica (CSL Behring)e della sua collaborazione con il prof. Naldini di Telethon.
Nell’occasione aveva insistito sull’importanza del lavoro di squadra, presentandoci il gruppo di ricercatori che collaborano con lei.


L’intervista da “Telethon notizie”
“Noi scienziati non inventiamo nulla, piuttosto cerchiamo di scoprire quello che già esiste nella realtà ma non è stato ancora svelato: è questo il bello del mio lavoro”.
Antonia Follenzi, professore ordinario di Istologia presso l’Università del Piemonte Orientale, è uno dei ricercatori Telethon che ha preso parte il 28 febbraio all’evento celebrativo dei trent’anni della Fondazione in presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in rappresentanza degli scienziati che in questi anni hanno lavorato grazie alla generosità degli italiani: il suo progetto sull’emofilia A, in collaborazione con il gruppo di Salvatore Oliviero dell’Università di Torino, è stato infatti uno dei 35 finanziati nell’ambito del bando 2019 di ricerca extramurale.

IL PROGETTO
Alla fine dello scorso anno l’azienda Biomarin ha presentato alle autorità regolatorie americane ed europee il dossier per l’approvazione della prima terapia genica per l’emofilia A, che sfrutta i vettori adeno-associati (Aav), mentre presso l’Istituto San Raffaele Telethon di Milano Luigi Naldini e il suo team stanno lavorando da anni a una strategia che sfrutta altri vettori, quelli lentivirali, che nei prossimi anni potrebbe entrare nella fase di sperimentazione clinica su pazienti.
Tutti gli approcci messi a punto finora mirano a correggere le cellule del fegato per renderle in grado di produrre il fattore VIII da rilasciare nel sangue.
Adesso entra in scena un nuovo possibile protagonista grazie agli studi di Antonia Follenzi: le cellule endoteliali, quelle cioè che rivestono le pareti interne dei vasi sanguigni presenti nei diversi organi.
“Circa dieci anni fa, quando ero ancora negli Stati Uniti, abbiamo dimostrato che le cellule endoteliali delle pareti dei piccoli vasi sanguigni del fegato producono fattore VIII in modo paragonabile se non superiore agli epatociti stessi.
Studiandole abbiamo capito anche che il fattore VIII non è coinvolto soltanto nel processo di coagulazione del sangue.
Grazie al nuovo finanziamento Telethon cercheremo di capire se correggere anche questo tipo di cellule con la terapia genica possa contribuire a migliorare il decorso della malattia.
Il nostro obiettivo non è presentare un metodo alternativo a quelli già molto avanti nella sperimentazione sull’uomo, ma offrire un altro punto di vista per affrontare il problema del resto questo è il bello della scienza, arrivare in clinica non è il punto di arrivo, ma solo un altro blocco di partenza per rispondere a nuove domande”.

IL PRIMO AMORE
E la terapia genica è in un certo senso l’antico – o forse il primo? – amore di Antonia Follenzi nella sua carriera di scienziata.
Medico di formazione, ha poi deciso di dedicarsi alla ricerca in laboratorio e a fine anni novanta ha trovato la sua strada: “Dopo aver dimostrato nel 1996 che l’Hiv, opportunamente manipolato, poteva funzionare come un vettore, Naldini cercava delle persone per mettere in piedi un gruppo di ricerca dedicato alla terapia genica.
In quei primi anni abbiamo di fatto lavorato sulla sequenza del vettore per renderlo più efficiente”.

Una piccolissima porzione della sequenza porta proprio la firma di Antonia Follenzi e ha permesso di aumentare di oltre tre volte la capacità del vettore di entrare nelle cellule e di trasferirvi il gene terapeutico, integrato stabilmente del Dna della cellula ospite.
Negli anni successivi si è poi trasferita in America, dove si è specializzata nella terapia cellulare e genica applicata alle cellule del fegato, ma quei suoi primi anni nel team di Naldini avrebbero poi contribuito ai primi straordinari risultati della terapia genica con vettori lentivirali applicata alle malattie genetiche rare: i primi bambini affetti da leucodistrofia metacromatica, una grave malattia neurodegenerativa, e da sindrome di Wiskott-Aldrich, un’immunodeficienza primitiva, oggi stanno bene a distanza di dieci anni e il trattamento messo a punto dai ricercatori dell’Istituto San Raffaele Telethon di Milano potrebbe presto diventare un vero e proprio farmaco disponibile per tutti.
“Il mio contributo è stato un piccolo mattone di un palazzo imponente, ma per chi come me da medico ha intrapreso la strada della ricerca è molto importante, riempie di senso il nostro lavoro”.

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